Epopea del mare
di Alfonso Licata
Non controlliamo il tempo antico in ogni suo aspetto. Sappiamo molto di filosofia e dei tempi di serenità, logos e guerra: Eraclito e Tucidide, Pericle e la mitologia tutta in processione; sappiamo di Platone in viaggio fino a Siracusa; di Socrate che incantava con i suoi sillogismi per bocca, appunto, di Platone; di Aristotele che osava una diagnostica su tutto lo scibile umano, arrivando a delineare i limiti dell’Universo.
Ciò che ci sfugge, comunque, sono, ad esempio le navi. Cosa si sa di esse? Di quelle greche, etrusche e romane… Cosa avevano sulla prua? Compariva un nome? Siamo portati a ritenere che su ogni nave campeggiasse un signum, che in qualche modo la distinguesse grazie alla forza evocativa del nome. Nelle ricostruzioni cinematografiche – tratte, si crede, dalla più pura realtà – le navi greche mostrano spesso un occhio sui due lati, come se la prua fosse il viso della nave. Tale accortezza, si avvertirà come funzione scaramantica, cioè al fine d’impressionare l’avversario e proteggere nave ed equipaggio da ogni forma di “malocchio” oltreché incutere paura agli avvistati nemici.
Poppa e prua: sculture lignee evidenti in questi due punti strategici della nave; decorazioni contrapposte quali una coda di pesce a poppa e una testa di cavallo a prua, a simboleggiare, nell’insieme, un cavallo marino. In questo, Greci e Fenici si distingueranno sul mare. Tra i navigatori antichi, forse i “più ecologisti” di tutti furono proprio i Fenici, visto che il loro intento precipuo era il commercio e non eccellevano in belligeranza. A loro interessava coprire la consueta rotta Sidone-costa africana-Sardegna.
Quindi i Romani, strateghi del mare con Gaio Duilio e Pompeo. I relitti romani inabissati ci parlano non soltanto di guerra ma anche di colonne che dalla Grecia avrebbero dovuto raggiungere l’Urbe: negli abissi ancora si trovano dei partenoni privati, raggiunti spesso anche dal sole. Per parlare di nomi posti sulla fiancata d’una nave dovremo giungere all’età moderna. C’è un’evoluzione simbolica sulle navi: dai disegni si passa ai nomi. Non più dunque occhi malevoli verso i nemici ma nomi di distinzione.
Chi possiamo ricordare per primo? Sopraggiunge alla mente il transito del Basso Medioevo, e così il XIII ed il sorgere del XIV secolo laddove spicca la figura del navigatore Lanzarotto Malocello, lo scopritore delle Isole Canarie. Che forse, le sue galee erano contraddistinte da un nome? Di questo non abbiamo notizie certe ma possiamo presumerlo con buona approssimazione. Di certo risale a quell’epoca l’usanza d’attribuire un nome alle navi e che coloro che precedettero il Malocello di qualche anno, ovvero i fratelli Vadino e Ugolino Vivaldi, superarono le Colonne d’Ercole con le galee denominate Allegranza e Sant’Antonio. A proposito dell’Allegranza, è fatto accertato che da tale galea il nome fu poi “trasferito” ad un’isola dell’arcipelago canario che ancora oggi lo conserva. Verranno quasi due secoli dopo le caravelle di Colombo, le famose Nina, Pinta e Santa Maria.
Il quesito da porsi, a proposito dello “scontro tra civiltà” a Lepanto nel 1571 – battaglia navale nella quale combatté (addirittura!) Miguel de Cervantes ed il suo già interiore “Don Chisciotte” – è se le navi lì confluite avessero un nome. Certo, sarebbe da supporre una sorta di In hoc signo vinces sulle fiancate delle navi, alla maniera di Costantino all’epoca dello scontro con Massenzio, a Saxa Rubra prima e poi a Ponte Milvio. Ecco, qualcosa del genere ma non per spaventare il nemico quanto per invocare la protezione celeste. Dell’Invincibile Armata, calata a picco nell’Atlantico nel 1587, sappiamo che la denominazione esatta era assai più fascinosa, ai confini con la poesia, e infatti recitava Grande y Felicisima Armada.
I Malocello potrebbero riassumersi nella sintesi di “protagonismo sul mare”. Nel caso di Lanzarotto Malocello parliamo di una scoperta geografica che ha mostrato come ci si possa immedesimare in un’isola, definita, come tutte le altre dell’arcipelago, fortunata dagli antichi e dai grandi poeti del tempo come Dante, Petrarca e Tasso. Per altri navigatori della sua Famiglia – Carbone Malocello e Jacopo Malocello, entrambi grandi ammiragli – il riferimento è più di natura militare, basti ricordare le battaglie nel Mediterraneo.
Poi il tempo: Sir Francis Drake, Colbert e la Francia, la Compagnia delle Indie Occidentali, inglesi, francesi e olandesi a spargersi per tutto il globo. A seguire tutta una letteratura “esotica”, da Daniel Defoe con il suo Robinson Crosue a Kim di Kipling, a Gaugain nelle isole del Pacifico, col suo Noa Noa, ad un giovanissimo Baudelaire imbarcato sulla nave Paquebot des Mers du Sud, diretta verso Calcutta a disciplinare un carattere già eminentemente poetico e dunque non addomesticabile con i ritmi borghesi.
Al mito del selvaggio da avvistare, studiare, prendere da esempio come elemento non ancora contaminato. Champoillon che decifra la stele di Rosetta; il Darwin che giunge alle isole Galapagos sul Beagle che era un brigantino della Royal Navy britannica.
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Poppa e prua: sculture lignee evidenti in questi due punti strategici della nave; decorazioni contrapposte quali una coda di pesce a poppa e una testa di cavallo a prua, a simboleggiare, nell’insieme, un cavallo marino. In questo, Greci e Fenici si distingueranno sul mare. Per parlare di nomi posti sulla fiancata d’una nave dovremo giungere all’età moderna. C’è un’evoluzione simbolica sulle navi: dai disegni si passa ai nomi.
I due luoghi simbolo delle navi d’un tempo, naturalmente anche letterarie, erano la poppa e la prua. In un certo senso esprimevano due diverse solitudini: sulla prua si stagliava l’infinito tutto da attraversare; in esso era compresa anche quella quota di divino da raggiungere, verso cui approssimarsi, condizione che da sempre si coglie sul filo d’orizzonte. Questo, naturalmente, deve aver riguardato tutti gli uomini di mare, quelli delle navigazioni storicamente accertate ma anche quelli che sono comparsi sulle navi letterarie nei romanzi dei grandi scrittori già citati:Daniel Defoe, Poe, Melville, Conrad.
La poppa, viceversa, era la vita alle spalle, ciò che si era attraversato e di cui soltanto una lunga scia, a volte ricamata di spuma, resisteva come sentiero sull’acqua. La poppa era il divenire archiviato, gli Annali di bordo scritti mentalmente da tutti i marinai, diversi dal grande libro di navigazione composto dal Comandante.
Sulla prua c’erano uomini con il cuore denso di speranza mentre a poppa ci sembra di poter dire che “i conti con la vita” s’erano già fatti e un certo disincanto era al sommo.
Per il nostro sentire, l’interrogativo da porsi è sempre stato questo: quale di queste due estremità prediligeva il Comandante? Governare la nave non richiedeva preferenze ma nell’io profondo, ne siamo certi, la scelta l’aveva fatta. Da una parte egli pendeva: gravitare a poppa era per lui come ritornare indietro nel tempo, all’età giovane. Al contrario, puntare l’orizzonte era certamente un mantenere vivo lo spirito per confermare il proprio ruolo, la propria autorità a bordo; ma è anche vero che l’orizzonte da raggiungere – il futuro – avrebbe sottratto all’esistenza del Comandante altro tempo, consumandone la vita.
La poppa era forse la terra lasciata e la prua l’immenso tutto da scoprire? Aveva il Comandante (il nostro, quello letterario che al momento ci sostiene) una preferenza come orario su l’uno e l’altro punto della nave? E di notte, era ancora valida questa distinzione tra il già attraversato e la rotta da seguire e l’oceano da affrontare? Serviva ancora guardarsi le spalle? Da qui l’ottimismo dello stare a prua e la malinconia di chi si posizionava a poppa.
Indubbio che l’elemento poetico trascina lontano e addirittura riesce ad analizzare ogni singolo angolo, lato, cabina, ponte, cantuccio, rialzo, torretta d’una nave. Il sapiente delle navigazioni è stato colui che s’è mosso e ha soggiornato su tutti questi luoghi. La sua anima ne è pregna e sa benissimo dove poter trovare il sereno e dove, invece, sa che monterà l’angoscia.
Tratto dal libro “Lanzarotto Malocello, dall’Italia alle Canarie” , Volume II, di Alfonso Licata e Fernando Acitelli, anno 2018, Edito dalla Lega Navale Italiana