Lanzarotto Malocello e la strategia ubiquitaria di Genova - Nel settimo centenario della scoperta delle Canarie
di ALFONSO LICATA (*) e FERNANDO ACITELLI (**)
(*) Presidente del «Comitato Promotore per le celebrazioni del VII centenario della scoperta di Lanzarote e delle Isole Canarie da parte del navigatore italiano Lanzarotto Malocello (1312-2012)».
(**) Membro del «Comitato Scientifico per la vita e le scoperte del navigatore italiano Lanzarotto Malocello».
Narrare la vita di Lanzarotto Malocello è come tracciare una traiettoria tra Genova e le Isole Canarie. E poi fissare il Cielo. Si potrebbe dire che il navigatore di famiglia genovese, ma nativo di Varazze, sia compreso in questa linea che unisce due luoghi del mondo. Noi lo conosciamo per pochi documenti disponibili ed è proprio grazie a essi — alla esilità dei dati che contengono — che ci accingiamo a definire se non i tratti umani e morali dell’uomo Lanzarotto Malocello almeno il valore della sua impresa. E se a storici di professione Lanzarotto Malocello era già fatto accertato, seppure da considerarsi, sotto certi aspetti, «minore», alla maggior parte delle persone, ivi compresi uomini di riconosciuto spessore culturale, il nome del navigatore non diceva nulla. Egli non esisteva. Del resto, pure a sfogliare un Manuale di Storia, anche il più conosciuto e a gran diffusione nelle scuole, di questa esistenza non v’è traccia. Si può risalire a un capitolo del Medio Evo, frugare dunque nel paragrafo, magari intitolato «Scoperte geografiche», ebbene, Lanzarotto Malocello brilla — ahinoi — per la sua assenza. Che Lanzarotto Malocello non goda della fortuna di un Vasco de Gama e di un Cristoforo Colombo può anche essere nell’ordine delle cose, del resto, si sa come anche in epoche remote fosse importante lo scenario che accoglieva navigatori e uomini di scienza. Si era accolti e dunque favoriti in un certo progetto e in certe condizioni favorevoli, anche religiose oltre che politiche. Usando un termine che può anche far sorridere ma che per noi contemporanei ha ormai una valenza rilevante, sponsor, ecco, diciamo che anche lo sponsor aveva a quei tempi importanza. Certamente, per le nostre odierne American’s Cup, siamo assuefatti all’idea di un sostegno economico che favorisca, con risultati più o meno brillanti, la «messa per mare». All’epoca doveva funzionare allo stesso modo anche se il frasario era, naturalmente, del tutto diverso. Comunque, quello che più sta a cuore al Comitato Promotore per il 7° Centenario della scoperta di Lanzarote è che il mondo guardi con più nitore — con una lente d’ingrandimento di ultima generazione — Lanzarotto Malocello e la sua impresa. Che insomma venga costui quasi collocato a pieno diritto se non in un’opera come De viribus Illustribus (Vita di Uomini Illustri) di Cornelio Nepote o nell’opera Vite brevi di uomini eminenti di John Aubrey, almeno in un breve capitolo della Storia Universale dove, crediamo, egli ormai abbia diritto di cittadinanza. È anche un discorso rivolto alle generazioni future e cioè chiedersi di continuo il perché delle cose, dei fatti che avvengono e soffermarsi «anche» sul mistero dei nomi perché proprio dietro i nomi, e dentro di essi, vi è uno scenario amplissimo di senso. Del resto, la parola Lanzarote, l’ascolto di un simile nome, non poteva non rimandare alla formulazione della domanda: «Ma perché questo nome per un’isola?». Già, il mistero dei nomi ma anche la meraviglia di fronte allo scenario di significati che ogni parola contiene. Verrebbe da dire che all’origine d’ogni «filosofia del linguaggio» c’è sempre l’uomo, il quale, grazie al suo movimento e alle collisioni che provoca con la sua energia cinetica (e spirituale/mentale) crea parole, ovvero mondi, universi di senso. La grandezza del Comitato Promotore — ci si perdoni l’uso della parola «grandezza»; simile termine non vuole affatto suonare come distanza da tutto il resto ma, al contrario, come sensibilità e momento di conoscenza, di apertura verso gli altri — è nell’aver fatto riemergere un nome, quello di Lanzarotto Malocello, da un fondale in cui era stato relegato. Ora, finalmente, anche grazie agli studi che verranno (e speriamo sempre nel riemergere di nuovi documenti; in questo caso la fantasia va a braccetto con la speranza ma entrambe per l’uomo sono un sostegno immenso), l’isola di Lanzarote ci sarà più familiare e proprio dalla pronuncia di questo nome risaliremo a un’esistenza. Dopo aver esposto lo scenario interiore che anima il Comitato Promotore, veniamo a tracciare di volo il necessario «sapore d’epoca», e così capire che tempo storico era quello di Lanzarotto Malocello, e quali scenari, quali personalità lo accoglievano. Quale il pensiero e le prospettive dell’Uomo verso il tramonto del mondo medievale. Innanzitutto diremo brevemente che i Liguri in generale e i Genovesi in particolare erano gli indiscussi padroni dei mari. Certamente con essi si muovevano anche Venezia e Pisa e poi Spagnoli e Portoghesi ma nel Mediterraneo come forza organizzativa, conoscenze nautiche, di matematica e astronomia, essi primeggiavano. È la città di Genova il faro di questo Basso Medio Evo. Con essa, come detto, due attori notevoli: Pisa e Venezia. La prima con mire soprattutto di dominio nel Mediterraneo, la seconda nel tentativo di scalzare Genova dalla sua presenza non soltanto nel Mediterraneo ma anche in quel «settore caldo», e a dir poco effervescente da un punto di vista economico e commerciale, che è la Porta d’Oriente; e così tutta la zona della Grecia, la regione degli Stretti, dell’Asia Minore, Cipro, i Luoghi Santi, l’Egitto fino a definire la cornice con una traiettoria sulla costa africana che soleva chiudersi alle «Colonne d’Ercole», l’attuale Stretto di Gibillterra. Nel periodo in questione, dunque dal XII al XIV secolo, non v’era punto del Mediterraneo che Genova non avesse toccato, dalla Corsica alla Sardegna, dalla Spagna all’Africa settentrionale, dal Regno di Napoli al Regno di Sicilia, dall’Impero Latino fino al Mar Nero. E comunque, non era loro ignota la navigazioni fuori delle Colonne d’Ercole e infatti, pur non avventurandosi in mare aperto, nell’oceano vivo e spettrale, era per loro itinerario normale lambire la costa del Portogallo toccando le città di Lisbona e Porto; e poi la Francia con la città di La Rochelle fino a raggiungere la città inglese di Southampton e poi la costa a nord delle Fiandre. La scelta, l’attrezzarsi per l’oceano avverranno quando lo spirito d’avventura crescerà e le strumentazioni tecniche diverranno novità efficacissime. La bussola era giunta in Occidente al tempo delle Crociate e la «contaminazione» con gli Arabi aveva avuto anche questo come risultato importante; pare comunque che l’origine della bussola fosse cinese. E poi l’astrolabio e le successive carte nautiche permetteranno di conoscere le «pareti» dell’oceano e dunque di muoversi con più disinvoltura e relativa sicurezza in spedizioni sempre più avventurose. È un fatto, d’altra parte, che si cercava la «fuoriuscita» dal Mediterraneo, ipotizzando nuove vie per l’Oriente e tutto questo per giungere nei luoghi che contavano da un punto di vista delle mercanzie e degli affari senza incorrere di continuo nello scontro su mare con i nemici di sempre. Il periplo dell’Africa, dunque, per giungere nel cuore del Mondo, almeno dal punto di vista degli affari. Era chiaro, dunque, che mettersi in viaggio verso l’oceano e non più, soltanto, navigando lungo costa, richiedeva una strumentazione più sofisticata. Nell’antichità v’erano già stati casi eccezionali di tentativi di circumnavigazione dell’Africa e tra questi va certamente ricordato il «periplo di Annone», verificatosi attorno al 450 a.C. E se il Portogallo e il Marocco erano praticamente affacciati sull’oceano e il loro rapporto con il mare ultra aperto era diverso rispetto a quello degli altri popoli proprio per questo loro continuo «stare alla finestra» sul mistero, il primo tentativo serio di sfidare l’oceano in Età Medievale spetta proprio ai Genovesi e in particolare è riferibile all’impresa dei fratelli Vivaldi, nel 1291. Genova a quel tempo poteva ben dirsi la New York del Mediterraneo. Era una città operosa, con l’occhio sempre puntato sugli orizzonti, non soltanto del mare ma anche della scienza nautica, delle costruzioni, della Conoscenza, in una parola. Una Genova gelosa della propria autonomia se anche il Barbarossa dovette arrendersi permettendo ai Genovesi di batter moneta, eleggere i Consoli e di amministrare la giustizia senza influenza imperiale. Lo stesso Federico II, dopo la morte del Barbarossa, tentò di minacciare la città con una flotta da guerra ma la reazione di Genova fu immediata e costrinse la flotta imperiale a mutar rotta e dunque intenzioni. Il problema della conduzione del governo fu sempre difficile a Genova e questo sia per lo scontro continuo tra le famiglie nobili e sia per la contrapposizione tra guelfi e ghibellini che toccò, appunto, anche la Superba o Dominante, così com’era definita Genova. In città le maggiori famiglie come i Doria, i Spinola, i De Mari, i Centurione erano nella fazione ghibellina mentre in campo guelfo si schierarono i Fieschi, i Grimaldi, i Fregoso. Diciamo che la «fragilità» governativa di Genova non intaccò mai la grandezza della Superba sui mari e questo anche quando, in una situazione delicatissima da un punto di vista politico, si passò a una diversa forma di governo, ovvero all’esperienza del Capitano del Popolo, primo fra tutti Guglielmo Boccanegra. Costui era di famiglia mercantile ma anche la nuova figura che egli incarnò non riuscì a placare i dissidi tra le nuove famiglie borghesi emergenti e che s’affacciavano sulla scena politica e le vecchie famiglie nobiliari. Dobbiamo a questo punto ricordare, se non altro per mettere in evidenza la supremazia genovese nel Mediterraneo, la vittoria della Meloria sui Pisani, il 6 agosto 1284 e poi contro i Veneziani alla Curzola, l’8 settembre 1298, dove l’eroe fu l’ammiraglio genovese Lamba Doria che sostituiva, come Capitano del Popolo, il nipote Corrado. Fu quella una grave sconfitta per i Veneziani alla cui guida era Andrea Dandolo. Questo è forse il momento più alto della potenza genovese. Di volo si dirà come la presenza genovese divenisse importante dopo la battaglia della Curzola sia negli Stretti, con il controllo dunque sul Mar Nero, ma anche per le successive espansioni verso gli odierni Iran e Iraq. In pari tempo fiorirono le colonie di Famagosta, Cipro, del quartiere Galata a Istanbul e poi i possedimenti a Trebisonda, Sebastopoli, Coffa, le isole di Lesvos, Chio, Creta, Rodi, e dunque Smirne ed Efeso. S’è detto d’una navigazione sicura, d’un veleggiare lungo costa e questo naturalmente con mezzi tecnici e strumentazioni non proprio sviluppati per la perfetta conoscenza dei luoghi ma tutto questo non impedì ai fratelli Vadino e Ugolino Vivaldi di mettersi in mare. Più d’ogni novità tecnica, segnò quell’impresa senza ritorno sia lo spirito d’avventura — è indubbio per gente di mare — ma anche il desiderio e l’esigenza di trovare una nuova via per l’Oriente. Era pensiero ormai diffuso che le vie fino ad allora conosciute per quei mercati ricchi potessero prima o poi chiudere oppure avere in esse una sempre più limitata possibilità di accesso. Si ritenne dunque importante trovare una nuova via che rendesse indipendente Genova e la sottraesse, soprattutto, a continui conflitti non soltanto con Venezia, anch’essa attrice principale e non stracca comparsa nel commercio con l’Oriente. E proprio per soddisfare tale esigenza — l’ennesima idea di autonomia che contraddistinguerà sempre Genova — che i fratelli Vivaldi salpano da Genova nell’aprile del 1291. Due le galee, l’Allegranza e il Sant’Antonio, e tanta speranza. Che dei fratelli Vivaldi non si seppe più nulla alimentò nel corso dei secoli tutta una serie di congetture e interpretazioni. Nel 1321, riferendosi a quel viaggio, il cronista Pietro d’Abano scriveva che si ignorava cosa fosse potuto accadere ai due fratelli Vivaldi. Nè l’oscurità cessò quando nel XIX secolo comparve un importante documento, il cosiddetto Itinerario di Antoniotto Usodimare. In esso si parlava della traiettoria di viaggio dei due fratelli dopo le coste del Marocco e così l’arrivo nel Golfo di Guinea, tra il Senegal e il Gambia. Inoltre si parlava dell’Etiopia ma nessuno tra gli interpreti, leggendo di quella regione, ritenne che potesse trattarsi dell’Abissinia. Oltre a questo documento, quasi in contemporanea, spuntò fuori, con una sorpresa che invase il cuore di tutti gli studiosi, un altro documento, molto più importante dell’Itinerario; si trattava di quel testo conosciuto poi con il titolo «Libro del conoscimiento», scritto nella metà del XIV secolo da un francescano spagnolo. Anche qui resoconti, racconti, dettagli ma il senso del «vago» comunque resisteva né faceva avanzare d’un solo passo i fatti anche se a un certo punto stava scritto: (…) «Questa città (Grasiona) è la capitale dell’impero di Abdeselib, parola significante “servo della Croce”. Adbeselib è il difensore della chiesa di Nubia ed Etiopia, e difende il Prete Janni, il quale è patriarca di Nubia e di Abissinia e governa moltissime terre e parecchie città di cristiani. Ma sono di pelle nera e tracciano col fuoco il segno della croce come riconoscimento del battesimo. Per quanto siano negri, sono uomini tranquilli e di buoni sentimenti, e hanno discernimento e dottrina. Gli dissero, in questa città di Grasiona che ivi furon tradotti i Genovesi salvatisi dalla galea naufragata ad Amenuam e che nulla si sapeva di ciò che fosse avvenuto dell’altra galea fuggita». La verità, forse, la saprà soltanto il sole che dall’alto osservò ogni cosa e a noi non resta che ricordare come Antoniotto Usodimare afferma che una sola galea sarebbe riuscita a circumnavigare l’Africa mentre invece l’opionione del frate francescano è diversa; secondo ques’ultimo, infatti, entrambe le galee sarebbero riuscite nel progetto. Una cosa per noi è certa: se non vi fosse stata l’avventura senza ritorno dei fratelli Vivaldi, Lanzarotto Malocello non si sarebbe messo sulle loro tracce oppure lo avrebbe fatto comunque, certamente in un altro momento, forse in un’atmosfera di maggiore serenità; e forse si sarebbe fermato su quella «sua» isola soltanto brevemente, magari stendendo su di essa la bandiera genovese per poi riprendere il mare nell’interesse della sua città alla quale quella strada alternativa era necessaria forse più d’un continuo sguardo al Cielo. Delineare un profilo di Lanzarotto Malocello è impresa ardua se non altro per l’esilità delle voci storiche a nostro favore. In un certo senso abbiamo la percezione non del Medio Evo, sia pure Basso, ma di un’ Epoca remotissima durante la quale di alcuni personaggi si ha appena la suggestione del nome. Avviene come uno smarrimento nell’apprendere come il «Periplo di Annone» sia noto come evento o impresa nel 450 a.C., mentre quanto possa essere avvenuto precisamente 1.762 anni dopo non abbia sostegno di fonti o di narrazioni con una (anche lievemente consistente) base storica. E se Lanzarotto Malocello si mise per mare alla ricerca dei fratelli Vivaldi, noi crediamo che una simile impresa egli l’avrebbe concepita anche senza quell’esempio che aveva davanti e che, in un certo senso, stava a indicargli la rotta. Anche lui, come i Vivaldi, certamente con altro spirito, si sarebbe messo per mare in cerca di quella strada alternativa alle porte d’Oriente. Vista dunque l’esilità dei documenti ci è consentito ipotizzare e quei pochi documenti disponibili non saranno altro che dei «lievi punti di ristoro» lungo tutto il nostro girovagare, magari senza bussola, senza strumentazione adeguata, proprio come avviene nelle regioni della Fantasia. Non è dunque azzardo ritenere che il navigatore, d’illustre e antica famiglia genovese con natali probabilmente a Varazze, si sarebbe comunque posto in viaggio, superando le Colonne d’Ercole. E questo, crediamo, in virtù di quello spirito d’avventura ma anche saggiamente speculativo — da un punto di vista mercantile — che animò tutti i navigatori genovesi e i liguri più in generale. Lo storico George Jehel parla di «strategia ubiquitaria» a proposito dei Genovesi. Egli afferma infatti: «È noto che, fin dalla loro comparsa nell’età medievale, i Genovesi sono dappertutto simultaneamente ma ciò tende a disperdere le loro energie. Tutta la storia di Genova sta in questa ubiquità che produce nello stesso tempo forza e dispersione. È ovvio che i Portoghesi e i Marocchini occupavano il migliore posto di partenza per esplorare l’Atlantico e gli arcipelaghi delle Canarie e Madera. Eppure furono i Genovesi a fare i tentativi più significativi in questa direzione col famoso viaggio dei fratelli Vivaldi» (…). Dal suo punto di vista sarà anche una «strategia ubiquitaria» ma ci è difficile considerarla come dispersiva; riteniamo altresì che il mondo si giovò della perizia e della valentia genovesi, e questo in molti settori, dalla costruzione delle navi, all’attenzione per la tecnica, una tecnica, sia detto, ancora agli albori, allo sviluppo del commercio, al benessere della città. Da non sottovalure in ultimo il desiderio di favorire il «contatto umano»: viaggiare prima ancora che con le galee lo è con la mente, con la Ragione anche se quest’ultima suole spesso deragliare. Viaggiare è inoltre immaginare che anche dagli altri possano venire parole nuove e, quindi, speranza. Dunque Lanzarotto Malocello. Ci stringiamo a quei pochi documenti in nostro possesso e, per il resto, lo avvistiamo nell’isola dove approdò, rimase e che forse scelse come buen retiro. I Malocello sono, come detto, nobile e antica famiglia. Se ne ha notizia già nel 1099 in cronache genovesi mentre troviamo tale Guglielmo Malocello come Console nel 1140; un Gio Malocello è fregiato dello stesso titolo nel 1153. Accanto a questi «progenitori», la presenza sul territorio ligure del ramo Malocello è attestato da atti notarili che per noi acquistano rilevanza se non altro come fattore di continuità e dunque di presenza in quella costa effervescente. Atti notarili che, sebbene essenziali nella loro resa, ci fanno dono del suono di quel nome: Malocello. Atti notarili che partono dal XIII secolo e che sono riferibili in particolare al 14 gennaio 1222 e poi, per quanto riguarda il 1237, al 13 gennaio, al 17 febbraio, al 26 giugno, al 12 luglio e quindi al 17 e al 23 agosto. Tornando al nostro eroe (saremmo tentati di chiamarlo più «figurante» per come appare indistinto nello scenario) tre fatti divengono per noi importanti per definire la sua esistenza. Il primo: siamo debitori a un certo Angelino Dulcert se Lanzarotto Malocello viene segnalato in modo inequivocabile. In una sua carta del 1339 compare l’arcipelago delle Canarie e a una di queste isole viene attribuito, come si legge, il nome di Lanzarote. Il secondo fatto è riferibile a uno scenario francese. Alcuni personaggi della famiglia Malocello si posero al servizio della Francia come capitani di galee, e questo attorno al 1340. È chiaro che con questo loro spostarsi sul suolo francese «rischiarono» di francesizzare il loro nome, che divenne più musicale, mutandosi infatti in Maloisel. Ed è a questo punto che una seconda ipotesi sorge. A sentire uno studioso del calibro di Charles De la Ronciere, attraverso un documento della Biblioteca Nazionale di Parigi datato 1659, la nobile famiglia normanna dei De Maloisel avrebbe asserito e dunque rivendicato che un loro antenato, tale Lancelot Maloisel, avrebbe scoperto le isole Canarie approdandovi nel 1312. Giungendo in un’isola chiamata dagli indigeni Titeroygatra, egli vi avrebbe vissuto e regnato avendo come residenza un castello. Lì sarebbe rimasto per circa venti anni fino a che gli indigeni non lo avrebbero scacciato. Anche il frate spagnolo, autore del famoso «Libro del Conoscimiento» riferisce di tale Malocello e del modo in cui costui fu poi ucciso dagli indigeni. Questi fatti, sia di provenienza francese che del resoconto del frate francescano spagnolo attestano in maniera chiara che fu proprio Lanzarotto Malocello ad approdare nell’arcipelago e a prendere dimora lì, dando il proprio nome all’isola situata a sud dell’altra isola denominata «Alegranza». I resti del castello in cui visse Lanzarotto Malocello erano ancora visibili agli avventurieri francesi Juan de Betancourt e Gadifier de La Salle quando questi giunsero a Lanzarote nel 1402, ovvero novanta anni dopo la fatidica data del 1312 sulla quale ormai tutti gli studiosi convergono come «il» momento della scoperta, l’anno decisivo per le Canarie e per Lanzarotto Malocello in particolare. Se la prima carta che menziona la «Insula de Lanzaroto Marocellus» è del 1339, una più tarda, datata 1367, opera dei fratelli Pizigani, mostra una particolarità, ovvero il disegno dello stemma genovese sull’isola Lanzarota e quindi, come a sfumare all’orizzonte e veleggianti verso sud, navi genovesi. Dunque il nome di Lanzarotto Malocello e la bandiera genovese distesa sul suolo dell’isola, come segno evidente di un Jus di primo scoprimento, quasi testimonianza al Cielo e agli umani di quanto era accaduto. Eccoli dunque in sequenza i documenti con i quali si tenta di approdare (noi adesso approdiamo e anche il nostro è stato un viaggio) alla verità storica. O almeno a lambirla. Il viaggio di Lanzarotto Malocello riveste anche un forte significato simbolico, ovvero il superamento delle Colonne d’Ercole, vale a dire del fino ad allora Conosciuto e dunque una sfida a quell’Infinito di cui sentiamo la paura e l’oppressione ma verso il quale pure aspiriamo. Certamente già nell’antichità v’erano stati viaggi oltre quello Stretto e a questo punto varrà la pena di ricordare come già Erodoto nel V secolo a.C. parlava dei Cartaginesi spintisi oltre quel punto geografico per commerciare con gli indigeni. Tali scambi avvenivano sulla costa del Marocco e nell’isola di Mogador. Altrettanto certi furono gli spostamenti di Eudosso di Cnido, grande matematico e astronomo greco del 4 secolo a.C. E inoltre: che Scilace, navigatore, geografo e cartografo di Carandia, in Asia Minore, che visse tra il VI e il V secolo a.C., abbia compito l’esplorazione dell’oceano Indiano per conto di Dario I re di Persia è vero. Vi è più d’un dubbio, invece, che Scilace abbia compiuto il periplo delle Colonne d’Ercole e il giro della Terra che a lui, in più d’una occasione, sono stati attribuiti. Anche il re di Mauretania Giuba II, seguace di Pompeo, allevato da Ottaviano che gli diede in sposa Selene Cleopatra, figlia di Cleopatra e Marco Antonio, compì numerosi viaggi lungo del coste ma, per quanto riguarda il suo approdo alle Isole Fortunate, tutto resta ipotesi e resoconto fragile, inconsistente. Vi furono dunque viaggi anche nell’antichità, veri, raccontati, supposti e poi ve ne furono di altri, per così dire letterari, poetici, soprattutto a opera del Petrarca, del Boccaccio, del Tasso che individuarono proprio nelle Isole Fortunate, ovvero le Canarie, un luogo posto a breve distanza dal Paradiso, almeno come pensiero. Nel De vita solitaria del Petrarca — opera che s’inserisce sul solco di una tradizione forte che dal Seneca più intimo sfila accanto alle Confessioni di Sant’Agostino e giunge al Boezio del De consolatione phisosophie, l’intento è di allestire una sorta di rifugio spirituale costruendo un luogo mentale, di parole, dove trovare riparo dopo la constatazione della vita, le fragilità e le delusioni che se ne sono ricavate. Eccolo ancora il Petrarca nelle Rime, trionfi e poesie latine Fuor tutt’i nostri lidi,/ne l’isole famose di Fortuna,/due fonti à: chi de l’una/bee, mor ridendo, e chi de l’altra, scampa. (…) Lanzarotto Malocello in questo luogo non soltanto mentale/spirituale ci arrivò per davvero e da lì più non si mosse. È probabile che Malocello non fosse in quella possessione che si raccomanda ai veri poeti ma è un fatto che in quel luogo dovette respirarla sul serio la Poesia e dovettero senz’altro giungergli trasparenti e nitide le pareti di quel ritaglio di mondo. Tra chi sognò liricamente quei luoghi e chi vi finì senza più far ritorno in patria doveva esservi una misteriosa complicità, il segreto di avergliela fatta all’umanità, e di aver finalmente trovato «il» rifugio. Che poi il Paradiso fosse nelle vicinanze, era un dettaglio.
( articolo tratto dalla “Rivista Marittima”, marzo 2013)