Giacomo Leopardi
di Anna Maria Barbaglia
Ricorre il 29 giugno il 223° anniversario della nascita di Giacomo Leopardi, uno dei più importanti rappresentanti di tutta la letteratura nazionale, un genio nel suo genere,
ma anche un personaggio difficile da capire, uno scrittore che, nella sua breve vita, ha saputo dare un enorme contributo di opere. Qual è lo studente che, almeno una volta nella vita scolastica, non abbia incontrato la poetica dell’Infinito o del Sabato del Villaggio?
Sono le due poesie che, insieme ad altre, sono le più presentate agli studenti di scuole di ogni ordine e grado, ma il vero Leopardi non è soltanto lì. Sono ben altre le opere che ci fanno conoscere il profondo pensiero del Nostro. Non abbiamo certo la pretesa di effettuare una lezione magistrale, ma vogliamo, in queste pagine, ricordarlo per come era, ricordare la sua personalità totalmente impressa nella sua opera, insomma, ricordare un grande.
Ma andiamo per gradi…
Nacque, come dicevamo, il 29 giugno 1798 a Recanati, allora appartenente alla Legazione Marchigiana dello Stato Pontificio. In quel periodo l’Italia era percorsa da un impeto tutto nuovo che avrebbe caratterizzato la vita politica e sociale degli anni a seguire.
Era percorsa da un impulso di libertà e di nuove speranze e le idee dei patrioti cominciavano a focalizzarsi proprio intorno a questa speranza. Aveva contribuito a questo slancio la discesa delle truppe napoleoniche, poi … la prima delusione del trattato di Campoformio, poi ancora i tragici eventi del 1799,.., l’Impero di Napoleone Bonaparte. Durante questo periodo di grandi eventi e di incertezze, Giacomo vive nella sua Recanati, cittadina, come detto, dello Stato Pontificio, Stato nel quale le notizie arrivavano sì, ma solo di riflesso chiuso com’era, impenetrabile, immobile, indifferente agli avvenimenti storici che stavano sconvolgendo tutta l’Europa nella quale si andava disegnando un nuovo assetto politico. Nello Stato Pontificio il nulla … e la Restaurazione del Congresso di Vienna sembrava dare quasi ragione all’immobilismo dello Stato della Chiesa: tante rivoluzioni, tanti nuovi personaggi sulla scena politica, poi, tutto come prima.
In questo periodo Leopardi vive nella sua casa nella quale non c’era affetto genitoriale verso i figli, nonostante la ricchezza intellettuale e culturale. La madre, bigotta e dispotica, non si avvicinava ai figli col classico gesto materno di una madre amorevole: era tutta presa nel cercare di risollevare la famiglia dal dissesto finanziario nel quale era caduta; il padre, legittimista tutto d’un pezzo preso, per tutta la giornata dai suoi libri, dalle accademie e dai numerosi scambi epistolari, non si occupava certo dei figli. Giacomo, sin da bambino, sente la solitudine della sua casa e la mancanza di affetti ed è per questo che si rifugia tra i libri della biblioteca paterna ricchissima di ogni genere di opere. Impara da solo il latino, il greco, l’ebraico, il francese, il tedesco, studia la filosofia, la teologia, la fisica e persino le scienze naturali: così trascorre la sua prima giovinezza. Già tra gli anni 1815-16 Giacomo è debole, scoraggiato, infiacchito dal troppo studio, si ripiega su se stesso, sta per crollare quando un barlume di luce illumina il suo animo: la poesia. Si rivolge agli Autori classici che diventano i suoi modelli: traduce gli Idilli del Mosco, il primo libro dell’Odissea, il secondo dell’Eneide e, più tardi la Titanomachia di Esiodo. Poi l’evoluzione del suo pensiero. Le sue letture prendono altre rotte e si dirigono verso La Vita dell’ Alfieri, l’Ortis di Foscolo, il Werther di Goethe, solo per citarne alcune ed è per questo che si allontana da quella letteratura priva di originalità ed è anche per questo che, nutrendo una grande stima per il Giordani, inizia con lui una ricchissima e strettissima relazione epistolare. Il primo Discorso lo scrive nel 1816, è la Lettera ai Compilatori della Biblioteca Italiana con il quale rivolge un caldo invito alla lettura degli scrittori greci e latini. Egli si dichiara, in questo primo periodo, contrario al romanticismo anche se, successivamente, man mano che si evolve il suo pensiero filosofico, si accosta sempre più strettamente alla poetica romantica arrivando alla convinzione che la sola vera poesia del suo secolo sia quella sentimentale in quanto capace di sottrarsi al predominio della ragione poiché si affida al senso dell’infinito, del ricordo, dell’indistinto.
Da questo concetto scaturisce il carattere della sua poesia come testimonianza del cuore, dei moti più profondi dell’anima, del sentimento, degli affetti più cari. Le letture dell’Alfieri, del Foscolo, l’amicizia con il Giordani, ma soprattutto la consapevolezza della solitudine nella sua Recanati, il desiderio di vedere quel mondo che ha conosciuto soltanto attraverso i libri, la consapevolezza che la sua vita, se non fosse mutata, sarebbe continuata nello squallore, il desiderio contrastato dalla famiglia di uscire da quel guscio, il contrasto feroce con la famiglia che insisteva affinché prendesse l’abito sacerdotale determinano in lui quella crisi e quel processo psicologico che lo porteranno al rovesciamento delle sue convinzioni letterarie, filosofiche e politiche e lo porteranno all’amore per la libertà e per la patria. Già nel 1818 afferma che la sua Nazione è l’Italia nelle canzoni All’Italia e Sopra il Monumento di Dante.
La crisi giunge all’apice quando nel 1819 una grave malattia agli occhi gli impedisce di fare pienamente ciò che preferiva: leggere. Cade allora ancor più nell’intristimento
e nell’infelicità tanto da considerare il suo stesso pensiero come il suo carnefice: tutti i suoi ideali, tutte le sue speranze sembrano fantasmi con i quali si trova a dover combattere.
Nel 1822, con il permesso dei Genitori, esce finalmente da Recanati: si reca a Roma, poi a Milano, a Bologna, a Firenze ed a Napoli dove morirà il 14 giugno 1837, ma queste uscite, forse, sono tardive e, comunque non gli offrono una vita molto diversa rispetto a quella aveva condotto a Recanati: l’unica possibilità per lui è scrivere.
Partendo dalla sua personale esperienza, Leopardi riflette sul senso della vita e sulla sorte naturale e storica dell’uomo come di tutto il genere umano ponendo a confronto
i risultati delle sue meditazioni con le idee del suo tempo ed i progetti per l’unificazione italiana.
Proprio nello svolgersi e nello svilupparsi di queste meditazioni risiede la complessa ispirazione della lirica leopardiana: l’accorato rimpianto dell’età dei sogni, la coraggiosa accettazione della realtà, la contemplazione della desolata e pietosa condizione dell’uomo, lo spirito combattivo, la vigorosa affermazione della dignità umana, la protesta contro le condizioni di vita cui l’uomo è condannato. Nello Zibaldone Leopardi, giorno per giorno scrive, a mo’ di appunti, i suoi pensieri dal 1817 al 1832, nelle Operette Morali (elaborazione degli appunti) e nei Pensieri è documentata la sua meditazione.
Per un certo periodo il Poeta raccoglie le idee del Rousseau pensando che l’uomo primitivo, abbandonato all’istinto, viveva nel mondo dei sogni nei quali credeva e per questo era felice, mentre l’uomo civile, attraverso la continua indagine e l’uso della ragione, diventa l’artefice della sua stessa infelicità.
Ma Giacomo reagisce e reagisce con le sue opere non potendo fare diversamente e nel 1821 egli afferma di voler fare tutto quanto è in suo potere e di voler impiegare “tutte le armi dell’affetto e dell’entusiasmo e dell’eloquenza e dell’immaginazione nella lirica” per poter scuotere la Patria ed il suo secolo. Egli esalta il forte che sa affrontare con coraggio mai domo il destino avverso e disprezza i vili che si sottomettono al destino senza avere il coraggio di reagire. È qui che si manifesta in tutta la sua chiarezza l’atteggiamento morale del Leopardi, quella sua eroica conoscenza della dignità umana e quel coraggio che lo sosterrà per tutta la sua vita, egli scriverà fino alle ultime sue ore. A questo punto il pessimismo del Poeta diventa molto coerente giungendo alla conclusione che tra i sentimenti, le aspirazioni, il desiderio di felicità che la natura desta nell’uomo e le condizioni di vita che la stessa natura impone all’uomo c’è un contrasto incolmabile che ha, come risultato finale, l’infelicità dell’essere umano tanto da affermare se “avvenisse di distruggere tutta la specie umana, non se ne avvedrebbe. Talché solo alla morte del globo, quando neppure un vestigio rimarrà delle cose create e, un silenzio nudo, e una quiete altissima empieranno lo spazio immenso, quando l’arcano mirabile e spaventoso dell’esistenza universale, si dileguerà, troverà fine la umana tragedia dell’esistenza”.
Questa frase ci fa capire quanto Leopardi fosse lontano dall’idealismo religioso, dalla provvidenza e dall’ottimismo. Questo il suo pensiero, ma non certo il suo desiderio, infatti egli vorrebbe ogni bene per il genere umano e loda chi si adopera per raggiungere questi scopi e nei suoi concetti della insopprimibile esigenza di appagare le ragioni del cuore, della solidarietà, dell’alto sentimento della pietà, Leopardi esprime il suo alto concetto della dignità umana, dell’amore, della sua ansia per la vita, del suo eroismo morale.
È questa la forza propulsiva dalla quale nasce tutta la sua poetica ed è per questo che non si può ridurre e limitare la personalità leopardiana nell’idillio rifiutando gli altri aspetti, quelli più consistenti, del suo pensiero.
“Sempre caro mi fu quest’ermo
colle
e questa siepe che da tanta
parte…”