A proposito della civetta, custode della notte
di Alfonso Licata
(tratto dal libro “Lanzarotto Malocello,dall’Italia alle Canarie”, vol. I, anno 2012)
La civetta è uno dei grandi osservatori della notte ed ha con il buio ed il mistero un rapporto intenso. Tanti sono gli scenari della notte e, al buio, si può anche parlare di orizzonti. Certamente, vi sono anche orizzonti nella notte e dunque la vita è quella colta da vicino, dalla postazione del rapace – ci sovviene difficile parlare della civetta come d’un rapace, ma tant’è – e l’altra (e le altre) che si dispiegano tutt’intorno o su quella linea lontana cui non basta la definizione di “laggiù”.
Uno dei custodi della notte è la civetta; certamente non il solo ma potremmo dire il più celebre, il più rappresentativo, quello che più degli altri troneggia e che con la sua forma, oltre che con la sua presenza, pare voglia comunicare una regalità.
Vi è anche un discorso di luce.
Naturalmente luce riferita agli occhi: essi, sia per il movimento di cui sono capaci, sia per la forza penetrativa, l’acutezza, e la forma, assomigliano a dei fari che perlustrano realtà ravvicinate e orizzonti. Si dirà: l’orizzonte è poetico, gli orizzonti sono logici; il primo contiene quell’elemento metafisico che pare attenuato quando il plurale assolve al suo compito di mutazione.
Nell’orizzonte l’ignoto corrisponde ad una necessità di natura superiore e, inconsciamente, un avvistamento, una epifania, hanno come presupposto il singolare; negli orizzonti si spazia per ragioni più umane, per poter promuovere al meglio la nostra manovra, il nostro agire.
“Un uomo di orizzonti limitati” – si dice accreditando dunque ad un individuo l’incapacità di concepire un oltre. Ancora: “un uomo che non riesce a guardare più in là del proprio naso.” Tutto vero. Grandezza del luogo comune.
In entrambi i casi citati, quello che manca è l’oltre. Quell’oltre richiesto per una soddisfazione interiore. Non si dirà mai: “È un uomo di orizzonte limitato”, e questo perché al singolare il significato pare distaccarsi da
terra, prendere le distanze da noi, sembra riguardarci ancora ma fino ad un certo punto.
Nei navigatori, crediamo, si parli di “orizzonte” innanzitutto.
È il singolare che chiama involontariamente in causa il divino.
Il progetto, l’allestimento della flotta, le relazioni, il mito di mettersi per mare: tutto vero. Anche perché un navigatore, già per questa sua attitudine, per questa scelta di porsi come “antagonista” dell’oceano avrà una resa in termini materiali, senz’altro. (Anche, forse, un accelerazione del suo divenire quanto a logorio fisico e mentale). Ma vi sarà anche un altro elemento che ne modificherà in meglio la figura, ovvero l’essere il facitore di storia. Sarà lui, al pari del regnante, di un militare, d’uno scienziato, di un filosofo, di un dotto in generale, di un santo, sarà lui, si diceva, che risulterà. Che risalterà. Appena una vocale diversa, u e a, ma con lo stesso contenuto di senso. Dunque l’assunto che la Storia è tracciata da chi osa, da chi s’espone, da chi argomenta e non già dall’anonimo dall’uomo indistinto nella folla della Storia (risarcito quest’ultimo soltanto nelle tele dei maestri ma contraddistinto sempre dalla sua impossibilità di emergere come identità).
In un moto di piazza, in un tumulto, vi sarà la possibilità d’una distinzione:
dalla folla si staccherà un individuo e sarà lui, fino a pochi istanti prima parte del monoblocco urlante, ad annunciarsi. Il suo fuoriuscire sarà un urlo prima ancora che per tutti per sé medesimo: la richiesta di identità.
Blasone della Famiglia Malocello
L’annunciarsi. Ma torniamo al navigatore: le sue mire pratiche, il suo profitto, ebbene, tutte queste idee non ci convincono pienamente.
Vi dev’essere dell’altro: v’è dell’altro.
Nel porsi come “antagonista” dell’oceano, nel mettersi per mare andando necessariamente incontro a rischi, a pericoli, non ultima la messa in gioco della vita, e poi i progetti, le conquiste, le acquisizioni non ci
paiono elementi sufficienti. Costui parlerà di orizzonti a seconda delle fasi del giorno (alba, mattino, pomeriggio, sera, notte) e dunque li attraverserà, li scruterà da esperto, confortato in questo da periti con strumentazione
adeguata, ma nei momenti di quiete, quando senza vento la nave a fatica scivolerà sull’acqua, ecco che dagli orizzonti egli (riflettendo in silenzio, da solo, nel suo scrigno sottocoperta) passerà disinvoltamente con i suoi
pensieri alla parola “orizzonte”. In un certo senso retrocederà, ma forse si tratterà di una avanzata, di un procedere anche se si è discesi al singolare.
Orizzonte.
Perché cos’altro è, nella sua essenza, quel suo mettersi in mare?
Nei libri di Storia si narra di fatti e dunque il navigatore avrà la sua nicchia nella quale risulterà chiara la sua traiettoria di nascita e morte e poi le sue azioni; non potrà esservi nessun elemento escatologico che invece troverà
accoglimento nei testi di Filosofia dell’Essere o in una più specifica Filosofia dell’Uomo.
Per placare il suo desiderio di ignoto e di assoluto l’uomo agisce, si mette per mare o per altra impresa e affronta l’inconoscibile; vorremmo sempre tenerla a mente questa componente metafisica altrimenti tutto ci apparirebbe come gara, lotta, aspirazione di grandezza, vanità. Sappiamo che non è soltanto questo ed è giusto anche nella scrittura possedere una luce che doni chiarore ai fatti.
Scudo della Famiglia Malocello
Già, la luce.
Parlavamo della grande dote della civetta di penetrare il buio e aprirsi con i suoi fari dei varchi nella notte. La civetta è come un faro che scruta, assorbe dati e agisce: un lavoro tutto per sé a ben vedere vivere e difendersi, ma non è già stupore che essa debba apparire al buio e declinarsi proprio di notte? Sarà anche della civetta quella distinzione tra orizzonte e orizzonti? La civetta ha la sua importanza nella nostra trattazione; non l’abbiamo chiamata in scena perché possiede la qualità, la “stravaganza” di essere animale notturno e noi la si è accostata, come immagine, ad un faro che fa luce sul mistero.
Naturalmente la civetta ha buonissime ragioni per essere qui: se il matematico/ filosofo Ludwig Wittgenstein afferma che il linguaggio è l’Essere, allora ogni parola è un frammento del Tutto e l’interpretazione va cercata lì.
Malus Augellus, la civetta, eccolo il simbolo nello stemma dei Malocello.
Dovremmo ipotizzare che si sia partiti proprio dalla civetta oppure preesisteva un nome, un’astrazione, un suono che era in assonanza con il malus augellus e proprio a ragione di questa contiguità si optò per quel custode della notte? Comunque sia andata, la civetta scruta lontano e la sua capacità di penetrare la notte (in questo caso gli orizzonti) è stupefacente.
Simbolicamente, possiamo affermare, la scelta fu azzeccata perché scrutare gli orizzonti (ma senza dubbio anche l’orizzonte interiore oltre che quello fisico) fu l’attività di Lanzarotto Malocello. Se la notte è di per sé paura, angoscia per l’incapacità di possedere quel sereno, quello stato di quiete (per lo più) che è in noi di giorno, e dunque di muoverci agevolmente e di concepire pensieri senza smottamenti, la civetta è il faro ovvero la luminaria che in situazioni sfavorevoli, nelle avversità, verrà in nostro soccorso. Ma se, come sappiamo, nel nome c’è il destino, ecco che Malocello interiorizzando il simbolo scrutava agevolmente quell’oltre anche notturno che era fatto di orizzonti e di “orizzonte”.
Lui era una civetta. Quale grande protezione per se stesso essere nel nome! Forse vi avrà ragionato sopra e se già altri della sua famiglia s’erano impegnati sul mare (è il caso già citato di Giacomo Malocello che fu ammiraglio della flotta genovese alla battaglia dell’Isola del Giglio nel 1241), certo è che quell’oltre da noi più volte sottolineato fu ragione di vita.
Ecco che quella distinzione tra orizzonti e orizzonte ci pare possa avere forza e credibilità.