A mare aperto: rotta senza ritorno dei fratelli Vivaldi (fonte di ispirazione per Dante?)
di Alfonso Licata e Fernando Acitelli
Intorno alla prima metà dell’Undicesimo secolo, a Gerusalemme la cura e la difesa dei pellegrini diretti in Terrasanta era affidata ai Cavalieri Ospitalieri, originariamente nati come Cavalieri dell’Ordine benedettino dell’Ospedale di San Giovanni di Gerusalemme, quindi conosciuti come Cavalieri di Rodi e, in seguito, come Cavalieri di Malta.
Nel 1229 l’Ordine degli Ospitalieri, pose sotto il proprio controllo la cittadella Acri, considerata, a lungo, la “Chiave della Palestina”, per essere la sua posizione dominante sul litorale, in quanto congiungeva la pianura interna di Esdraelon (Valle di Jezrael), così da consentire il più agevole degli ingressi nell’interno della regione. Essa ben presto divenne il caposaldo finale dello Stato crociato.
La cittadella di Acri sebbene fosse una fortificazione ottomana, era stata, invero, edificata dall’Ordine degli Ospitalieri al fine di perfezionare il complesso difensivo della città, rafforzando il muro settentrionale.
Dopo la caduta di San Giovanni d’Acri e delle ultime piazzeforti cristiane in Medioriente le vie terrestri per il commercio delle spezie erano divenute impraticabili e si avvertiva l’esigenza di aprire una via commerciale alternativa.
Le spezie hanno avuto una funzione molto importante nella storia, sin dalla loro scoperta. In epoca antica l’uso delle spezie era largamente diffuso tra gli antichi Egizi; già intorno al 2600 a.C. cibi speziati, venivano forniti agli schiavi impegnati nella costruzione della piramide di Cheope con lo scopo essenziale di mantenere le maestranze in forze. Si riteneva, infatti, che l’aggiunta di spezie negli alimenti proteggesse dalle epidemie.
In quell’epoca la gran parte delle spezie proveniva dall’India.
Nel mondo antico e medievale le spezie erano uno dei prodotti di maggior valore, che da soli giustificavano l’apertura di nuove rotte commerciali.
Essendo divenute impraticabili le vie terrestri per il commercio delle spezie era necessario aprire una via commerciale alternativa, per cui diversi mercanti e patrizi genovesi finanziarono una spedizione che avrebbe dovuto giungere “ad partes Indiae per mare oceanum” (ossia arrivare in India dopo aver circumnavigato l’Africa).
Per maggior precisione, venne, a tal fine, costituita una società in accomandita per la durata di dieci anni: i soci accomandatari si impegnavano a far fruttare, nella loro navigazione attraverso le diverse parti del mondo, i capitali avuti dai soci accomandanti, ai quali avrebbero dovuto versare, poi, ad impresa compiuta, il cinquanta per cento degli utili.
Prestito come impegno giuridico, vale a dire come investimento, e nello stesso tempo credo estremo nella potenza delle flotte e nelle ricchezze dei sentieri marini, già battuti, e quindi oggetto di conoscenza, e di altri nuovi come dovevano apparire nella mente di chi s’inoltrava per mare. E allora gli emisferi cerebrali – con l’attività sognante, raziocinante e spirituale – evocavano e rappresentavano l’emisfero terracqueo, cioè il nuovo percepito nella mente e così da raggiungere.
Da parte loro, inoltre, Ugolino e Vadino Vivaldi avevano ricevuto in prestito da Antonio de Nigrono cinquecento lire genovesi, che avrebbero poi dovuto restituire con gli interessi, appena fossero approdati a Maiorca, ove contavano di vendere alcune mercanzie.
La spedizione marittima fu preparata con molta diligenza, con ricchezza di allestimenti ed equipaggiamenti, rifornimenti ed attrezzature, destando, sopratutto per la durata e la destinazione del viaggio, il più profondo interessamento nella Città di Genova, pure adusa ai grandi ardimenti di terra e di mare.
Del resto gli Italiani ed i Genovesi in particolare possedevano il massimo dello scibile marinaro del tempo e furono per oltre cinquecento anni i re dei mari e gli istruttori del mondo.
La cartografia nautica del medioevo fu opera dei Genovesi, i quali avevano anche cognizioni astronomiche e matematiche avanzatissime rispetto all’epoca e disponevano di strumenti tecnici ignoti ad altre genti.
I due fratelli Vivaldi prospettavano di giungere direttamente alle Indie uscendo fuori dallo stretto di Gibilterra, allora chiamato Stretto di Ceuta, abbandonando così le abituali rotte che da uno dei porti dell’Egitto, della Siria o del Mar Nero, attraverso lunghe, lente e pericolose carovane, conducevano alla Persia, alla Tartaria o all’India.
Si trattava, dunque, di una rivoluzione che si andava a compiere nel sistema commerciale delle Repubbliche marinare italiane del secolo XIII, che, oltretutto, comportava la soluzione di questioni e problemi preliminari importantissimi, fra i quali la circumnavigazione dell’Africa, che nella convinzione comune era ritenuta non solo ardita, ma addirittura impossibile.
Nessuna comunicazione, infatti, esisteva tra l’Oceano Atlantico o Occidentale e l’Oceano Indiano o Etiopico. Si trattava, inoltre, di avventurarsi nella scoperta di Paesi assolutamente sconosciuti, superando pregiudizi d’ogni sorta, quali l’inabitabilità per eccessivo calore dei Paesi tropicali, la credenza alquanto radicata dell’esistenza di mostri marini pronti ad attirare i navigli negli abissi oceanici, e via di questo passo.
Perché una simile esplorazione geografica potesse essere concepita ed attuata, si presupponevano, in chi la ebbe a preparare e dirigere, nozioni cosmografiche e capacità nautiche eccezionali.
Il viaggio che i Vivaldi si avviavano fiduciosamente a compiere deve considerarsi un’impresa storica ed arditissima perché porta ad una valutazione del tutto nuova dei concetti tradizionali sulla circumnavigazione dell’Africa.
Diverse furono le tappe intermedie. Risulta, infatti, che la spedizione ebbe a fermarsi oltre che a Maiorca anche a Barcellona, Valenza, Alicante, Almeria, Cadice e in diversi posti del Nord-Africa.
La previsione della fine di ogni dominio cristiano sulle terre d’Asia, in coincidenza con la caduta di San Giovanni d’Acri, aveva aspramente posto alle Repubbliche Marinare il problema della sopravvivenza . E questo era vero soprattutto per Genova che più delle altre città era sensibile alla questione perché radicata più profondamente in ogni terra conosciuta. Proprio per questo sentì per prima come validissimo il progetto dell’apertura di nuove vie verso il portentoso Oriente.
La spedizione dei Vivaldi, pertanto, fu l’espressione di una inevitabile necessità. Benché progettata primariamente per commercio, l’impresa puntò, tuttavia, anche al proselitismo cristiano. E, difatti, accompagnarono Ugolino nella sua spedizione due frati francescani che avevano il compito di evangelizzare le popolazioni pagane con le quali avrebbero avuto contatto.
A questa missione, certamente, non furono estranee concrete intenzioni di tipo coloniale, finalizzate all’estensione della propria sovranità su territori e popoli all’esterno dei propri confini, col proposito di facilitare il dominio economico sulle risorse, il lavoro e il commercio di questi ultimi.
In tal modo si tendeva a consolidare anche l’insieme di convinzioni usate per legittimare o promuovere questo sistema, in particolare il credo che i valori etici e culturali dei colonizzatori fossero superiori a quelli dei colonizzati.
Le galee furono ben armate e, dopo aver superato lo stretto di Gibilterra e aver iniziato la discesa lungo le coste africane, navigarono in giù per la costa del Marocco, fino ad un luogo chiamato Gozora, dopo di che nulla si seppe più di loro.
Della spedizione, infatti, si persero le tracce dopo Capo Juby, una modestissima lingua di terra schiacciata tra il mare e il deserto del Sahara occidentale ai confini meridionali del Marocco: nessuno della spedizione fece mai più ritorno.
Si chiudeva così il più antico tentativo di esplorazione transoceanica fatto da Europei nel Medioevo.
La memoria di questa coraggiosa avventura, simbolo dell’audacia dell’uomo ai limiti delle possibilità in quell’epoca, si mantenne viva per lungo tempo.
Essa si ritrova, per esempio nei “Castigatissimi Annali” del genovese Agostino Giustiniani, prodotti oltre due secoli dopo, ai quali faranno riferimento altri storici locali. Si trattava però di un vago ricordo, dubitandosi, tra l’altro, dell’effettiva realizzazione di tale viaggio. Si dovette attendere la metà del secolo diciannovesimo per venire a conoscenza di un documento probatorio e risolutivo, un brano degli “Annali genovesi di Caffaro e dei suoi continuatori”, compilato dall’annalista Jacopo Doria, zio dello stesso armatore della spedizione Tedisio Doria, imbarcatosi con i fratelli Vivaldi, il cui testo di seguito si riporta letteralmente:
“Dunque, nel medesimo anno, Tedisio Doria, Ugolino Vivaldi e suo fratello, con alcuni cittadini di Genova, intrapresero un viaggio che nessuno fino ad allora aveva mai tentato. Infatti armarono molto bene due galee e, dopo avervi caricato le vettovaglie, l’acqua e le altre cose necessarie, nel mese di maggio le diressero verso lo Stretto di Ceuta perché navigassero attraverso il mare Oceano verso le Indie, per riportare da là delle merci utili. In quelle galee si imbarcarono i Suddetti fratelli Vivaldi e due frati minori, la qual cosa apparve mirabile non solo a coloro che la videro, ma anche a coloro che ne sentirono parlare. E dopo aver superato il luogo che si dice Gozora, non avemmo più alcuna notizia certa di loro. Che Dio li custodisca e li riconduca sani e salvi a casa”.
Non molti anni dopo Dante Alighieri era forse a conoscenza del fallimento della spedizione dei fratelli Vivaldi quando compose, nel XXVI canto del suo Inferno, la storia del viaggio di Ulisse oltre le Colonne d’Ercole.
È probabile che questo viaggio sia stato per il grande poeta una fonte di ispirazione, da lui definito “un folle volo”, affascinante e folle allo stesso tempo, poichè, sia Ulisse, sia i fratelli Vivaldi, tentarono un viaggio ben al di sopra delle loro possibilità.
(Capitolo tratto dal libro “Lanzarotto Malocello, dall’Italia alle Canarie” di Alfonso Licata e Fernando Acitelli, Volume secondo, anno 2018)
A MAR ABIERTO: RUTA SIN RETORNO DE LOS VIVALDI
(fuente de ispiracion para Dante?)
por Alfonso Licata y Fernando Acitelli
E n torno a la primera mitad del siglo XI en Jerusalén, el cuidado y la defensa de los peregrinos que viajaban a Tierra Santa fue confiado a los Caballeros Hospitalarios, originalmente nacidos como Caballeros de la Orden Benedictina del Hospital de San Juan de Jerusalén, por lo tanto, conocidos como Caballeros de Rodas y, más tarde, como Caballeros de Malta.
En 1229, la Orden de los Hospitalarios colocó bajo su control la ciudadela de Acri, considerada, durante mucho tiempo, la “Llave de Palestina”, por ser su posición dominante en la costa, ya que se unía a la llanura interna de Esdraelon (Valle de Jezrael) permitiendo la entrada más fácil al interior de la región. Pronto se convirtió en la piedra angular final del Estado cruzado.
La ciudadela de Acri, aunque era una fortificación otomana, había sido construida por la Orden de los Hospitalarios para perfeccionar el complejo defensivo de la ciudad, fortaleciendo el muro septentrional.
Después de la caída de San Giovanni de Acri y de las últimas fortalezas cristianas en Oriente Medio, las rutas terrestres para el comercio de especias se volvieron impracticables y se sintió la necesidad de abrir una ruta comercial alternativa.
Las especias han jugado un papel muy importante en la historia desde su descubrimiento. En la antigüedad, el uso de especias estaba muy extendido entre los antiguos egipcios; ya alrededor del 2600 a.C., se suministraban alimentos picantes a los esclavos encargados de la construcción de la pirámide de Keops con el propósito esencial de mantener a los trabajadores con energía. De hecho, se creía que añadir especias a los alimentos protegía contra las epidemias.
En ese momento, la mayoría de las especias venían de la India.
En el mundo antiguo y medieval, las especias eran uno de los productos más valiosos, que solo justificaban la apertura de nuevas rutas comerciales.
A medida que las rutas terrestres para el comercio de especias se volvieron intransitables, fue necesario abrir una ruta comercial alternativa, de modo que varios comerciantes genoveses y patricios financiaron una expedición que debería haber llegado “ad partes Indiae per mare oceanum” (es decir, llegar a la India después de haber rodeado África).
Para mayor precisión: se estableció una sociedad limitada de diez años para este propósito. Los socios limitados se comprometieron a sacar partido, durante su navegación a través de las diferentes partes del mundo, de los capitales recibidos por socios limitados, a los que habrían tenido que pagar, como una hazaña conjunta, el cincuenta por ciento de los beneficios.
Préstamo como compromiso legal, es decir, como inversión, y, al mismo tiempo, credo extremo en el poder de las flotas y en las riquezas de los caminos marítimos ya conocidos, y, por lo tanto, objeto de conocimiento, y de otros nuevos que estaban aún por aparecer en las mentes de aquellos que se embarcaron en el mar. Y así, los hemisferios cerebrales (con la actividad del sueño, el razonamiento y lo espiritual) evocaron y representaron al hemisferio terrestre, es decir, la nueva percepción en la mente y, por lo tanto, lo que debe ser alcanzado.
Por su parte, además, Ugolino y Vadino Vivaldi habían tomado prestadas de Antonio de Nigrono quinientas liras genovesas, que luego tendrían que pagar con intereses, tan pronto como desembarcaran en Mallorca, donde esperaban vender alguna mercancía.
La expedición marítima fue preparada con gran diligencia, con una gran cantidad de accesorios y equipamiento, suministros y materiales, que despertaron, sobre todo por la duración y el destino del viaje, el interés más profundo en la ciudad de Génova, acostumbrada a grandes gallardías por tierra y mar.
Además, los italianos y los genoveses en particular, poseían el máximo conocimiento marítimo de la época y fueron, durante más de quinientos años, los reyes de los mares y los instructores del mundo.
La cartografía náutica de la Edad Media fue obra de los genoveses, que también tenían un conocimiento astronómico y matemático muy avanzado respecto a la época y disponían de instrumentos técnicos desconocidos para otras personas.
Los dos hermanos Vivaldi propusieron ir directamente a las Indias saliendo del Estrecho de Gibraltar, entonces llamado el Estrecho de Ceuta, abandonando así las rutas habituales que desde uno de los puertos de Egipto, Siria o el Mar Negro, a través de largas, lentas y peligrosas caravanas, conducían a Persia, Tartaria o la India.
Por lo tanto, se trató de una revolución que se iba a llevar a cabo en el sistema comercial de las Repúblicas Marítimas Italianas del siglo XIII, que, además, implicó la solución de preguntas y problemas preliminares muy importantes, incluida la circunnavegación de África, que en la convicción común no solo se consideraba algo arduo, sino, incluso, imposible.
De hecho, no existía comunicación entre el Océano Atlántico u Occidental y el Océano Índico o Etíope. También se trataba de aventurarse en el descubrimiento de países absolutamente desconocidos, superar todo tipo de prejuicios, como la falta de habitabilidad debida al calor excesivo de los países tropicales, la creencia algo arraigada de la existencia de monstruos marinos listos para atraer barcos a las profundidades del océano, y así sucesivamente.
Para que tal exploración geográfica fuera concebida e implementada, se presuponía, en aquellos que la tenían preparada y dirigida, nociones cosmográficas y habilidades náuticas excepcionales.
El viaje que los Vivaldi estaban comenzando a realizar con confianza debe considerarse una hazaña histórica y muy arriesgada porque conduce a una valoración completamente nueva de los conceptos tradicionales sobre la circunnavegación de África.
Hubo varias etapas intermedias. De hecho, parece que la expedición tuvo que detenerse no solo en Mallorca, sino también en Barcelona, Valencia, Alicante, Almería, Cádiz y en varios lugares del norte de África.
La predicción del fin de toda dominación cristiana sobre las tierras de Asia, coincidiendo con la caída de San Giovanni de Acri, había planteado bruscamente a la República Marítima el problema de la supervivencia. Y esto, sobre todo, era cierto para Génova que era más sensible que las otras ciudades a la cuestión porque estaba más profundamente enraizada en todas las tierras conocidas. Precisamente por este motivo, sintió que el proyecto de abrir nuevos caminos al poderoso Oriente era muy valioso.
La expedición de los Vivaldi, por lo tanto, fue la expresión de una necesidad inevitable. Aunque diseñada principalmente para el comercio, la hazaña también tenía como objetivo el proselitismo cristiano. Y, de hecho, dos frailes franciscanos acompañaron a Ugolino en su expedición, con la tarea de evangelizar a las poblaciones paganas con quienes tendrían contacto.
Sin duda, esta misión no estuvo exenta de intenciones concretas de tipo colonial, destinadas a extender su soberanía sobre territorios y pueblos fuera de sus fronteras, con el objetivo de facilitar el dominio económico sobre los recursos, el trabajo y el comercio de estos últimos.
De esta manera, se tiende también a consolidar el conjunto de creencias utilizadas para legitimar o promover este sistema, en particular la creencia de que los valores éticos y culturales de los colonizadores eran superiores a los de los colonizados.
Las galeras iban bien armadas y, después de pasar el Estrecho de Gibraltar y comenzar el descenso a lo largo de las costas africanas, navegaron por la costa de Marruecos hasta un lugar llamado Gozora, después del cual no se supo nada más que ellas.
De hecho, las huellas de la expedición se perdieron después del Capo Juby, una franja de tierra muy modesta apretujada entre el mar y el desierto del Sáhara Occidental en las fronteras meridionales del sur de Marruecos: ninguno regresó.
Así terminó el intento más antiguo de exploración transoceánica por los europeos en la Edad Media.
El recuerdo de esta valiente aventura, símbolo de la audacia del hombre en los límites de las posibilidades en ese momento, se mantuvo vivo durante mucho tiempo.
Esta aventura, por ejemplo, se encuentra en el “Castigatissimi Annali” del genovés Agostino Giustiniani, producido más de dos siglos después, al cual harán referencia otros historiadores locales. Se trataba de un vago recuerdo, dudando, entre otras cosas, de la realización real de este viaje. No fue hasta mediados del siglo XIX cuando se tuvo conocimiento de un documento probatorio y concluyente, un pasaje de los “Anales genoveses de Caffaro y sus seguidores”, compilado por el analista Jacopo Doria, tío del mismo propietario de la expedición Tedisio Doria, que se embarcó con los hermanos Vivaldi, cuyo texto se copia literalmente a continuación:
“Entonces, en el mismo año, Tedisio Doria, Ugolino Vivaldi y su hermano, con algunos ciudadanos de Génova, emprendieron un viaje que nadie había intentado antes. De hecho, armaron muy bien dos galeras y, después de cargar las provisiones, el agua y las otras cosas necesarias, en el mes de mayo las dirigieron hacia el estrecho de Ceuta para que pudieran navegar a través del Océano hacia las Indias, con el fin de traer de allí algunos bienes útiles. En esas galeras, se embarcaron los llamados hermanos Vivaldi y dos frailes menores, lo cual pareció admirable no solo para quienes lo vieron, sino también para quienes oyeron hablar de ello. Y después de pasar el lugar llamado Gozora, ya no tuvimos ninguna noticia cierta de ellos. Que Dios los guarde y los traiga a casa sanos y salvos”.
No muchos años después, Dante Alighieri fue, tal vez consciente, del fracaso de la expedición de los hermanos Vivaldi cuando compuso, en el canto XXVI de su Inferno, la historia del viaje de Ulises más allá de las Columnas de Hércules.
Es probable que este viaje fuera una fuente de inspiración para el gran poeta, definido por él como “un vuelo loco”, fascinante y loco al mismo tiempo, ya que tanto Ulises como los hermanos Vivaldi intentaron un viaje mucho más allá de sus posibilidades.
(Capítulo extraído del libro “Lanzarotto Malocello, de Italia a Canarias” de Alfonso Licata y Fernando Acitelli, Volumen dos, año 2018)