D.D. Dante Day
di Settimio Cavalli
Scrive Gianfranco Contini in ‘Leggere Dante’, prefazione alla edizione di Vittorio Sermonti della Commedia (RCS Rizzoli Libri, Milano 1988): “La parola ‘dantista’ la udii la prima volta nella mia infanzia” e conclude che “la nostra guida d’oggi [Sermonti] ha il vantaggio di non appartenere ad alcuna setta di dantologi”.
Proseguendo nella ricerca di suffissi, incontriamo –filo e –fobo, cosicché possiamo sciegliere tra:
dant-ista aderente a un atteggiamento dottrinario riguardo a Dante
dant-ologo studioso di Dante e della sua opera
danto-filo amante, cultore di Dante
danto-fobo avverso, sofferente di paura o ripugnanza verso Dante
ai quali si puó aggiungere bruto privo della ragione: non sa chi è Dante, né mostra intenzione o interesse a saperlo.
Proprio Dante scrisse “Considerate la vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza” (Inferno XXVI 118-120), pertanto eliminiamo i bruti. Ma prescindiamo anche dai dantologi e la dantologia, “astrusa scienza” che secondo Indro Montanelli fa si che “Dante è forse, nella storia della poesia mondiale, l’autore su cui più si è scritto. Purtroppo chiunque lo abbia fatto, lo ha fatto soprattutto per demolire ciò che avevano scritto gli altri” (in Indro Montanelli, Dante e il suo secolo, Rizzoli, Milano 1964). Neppure ci fidiamo dei dantofili, come fu Boccaccio che, citiamo sempre Montanelli, “s’innamorò di Dante e ne diventò un irriducibile ‘tifoso’ [scrivendone] soltanto un elogio, commovente per l’affettuosa ammirazione così rara fra letterati, ma povero d’informazione”. I fobici ci repellono, qualunque sia la loro fobia; cosa ci resta?
Ci iscriviamo al club dei “curiosi di Dante”: vogliamo sapere il giusto e il necessario, conoscerlo senza dover investire in questa aspirazione tutta la vita, amarlo senza farci travolgere dall’estasi, essere dei ‘dantiani’.
Per questo, abbiamo riletto due libri di dantiani inconsapevoli: Indro Montanelli e Giampaolo Dossena. Montanelli, di cui ci resta una statua, bruttina, nei giardini di porta Venezia a Milano e una produzione – spesso compartita con una squadra di ‘negri’ molti dei quali, come Marcello Staglieno, Marco Nozza, Mario Cervi e Roberto Gervaso cominciarono da lì il loro volo personale – di più di un centinaio di titoli e innumerevoli articoli giornalistici, liquida l’argomento con una certa brutalità. “Questo libro, più che su Dante, è centrato sul secolo di Dante. Lo sfondo sopraffà il personaggio. Ma non potevo evitare questo difetto perché sulla vita di Dante non si possono mettere insieme più di quindici o venti pagine.” E, coerentemente, di Dante e la sua opera si occupa ben poco, una ventina di pagine concentrate nel capitolo finale ‘La dantologia’, e mettendo qua e là alcuni colpi di pollice tipici del suo essere un ‘maledetto toscano’.
Abbandonato, un po’ delusi, Montanelli, ci immergiamo nel Dante di Dossena (Dante, Longanesi & C., Milano 1995 e TEA, Milano 2020) di cui ci restano quarantasette classificatori di documenti nella Sala Dossena dell’Università di Bologna sezione MoRe, e una produzione – tutta duramente individuale – di circa trentacinque titoli e innumerevoli articoli giornalistici. Ben altra soddisfazione ci da il Dante dosseniano. Tralasciando l’invito al vezzo, tipicamente suo, di farne un baedeker (“Il lettore può adoperare, se vuole, il presente volume come guida all’Italia di Dante Alighieri”), troviamo nei duecentododici capitoletti che lo compongono tutto quello che veramente serve per diventare dantiani.
Come primo passo in questo divenire anche noi dantiani, seguiremo tre (guarda caso…) strade per avvicinarci a Lui: la sua vita, l’invenzione della lingua italiana, il personaggio letterario. In questo triplice percorso tutte le citazioni corsive e virgolettate “ ” sono tratte, tranne diversa indicazione, dal Dante dosseniano.
Durante di Alighiero, detto Dante, nacque a Firenze nel 1265, sotto il segno dei Gemelli, ossia tra il quattordici maggio e il tredici giugno; come giá abbiamo visto, di Dante si sa assai poco, data la scarsissima documentazione esistente. Non esistono manoscritti originali, non abbiamo biografie coeve, né una vera autobiografia: “Dante Alighieri non dirà mai nulla della propria famiglia, con l’eccezione del trisnonno Cacciaguida. E non dirà mai nulla della propria infanzia […] Dante Alighieri ci terrà tanto a questo trisnonno: lo farà parlare a lungo nei canti 15, 16 e 17 del Paradiso, più a lungo di qualsiasi altro personaggio” e sarà un discorso in cui metterà in bocca del trisnonno notizie non documentate che riguardano anche lui, Dante Alighieri, e la sua vita. Ricordiamo solo, tanto per citare, il tristissimo vaticinio Tu proverai sì come sa di sale lo pane altrui, e come è duro calle lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale (Paradiso XVII 58-60).
Della sua vita di esule qualcosa in più si sa, e legioni di dantologi si sono cimentati nel ricostruire il suo triste andare da una corte all’altra fino alla morte a Ravenna, nella notte del 14 settembre del 1321. Come non aveva avuto pace in vita, così le sue ossa non ebbero pace dopo morto e la battaglia tra Firenze e Ravenna per avere quello che di Lui restava e il suo sepolcro solo si concluse nel 1865. “Giosue Carducci, giovane poeta, giovane professore, già di molto grido, scrive per l’occasione un sonetto
Io ‘l vidi. Su l’avello iscoverchiato
erto l’imperïal vate levosse:
allor la sua marina Adria commosse
e tremò de l’Italia il manco lato…”.
Se tormentata, poco nota e discussa fu la sua vita, indiscutibile è il suo riconoscimento come ‘inventore’ della lingua italiana, al punto che Giacomo Devoto e Gian Carlo Oli ritennero opportuno inserire in un capitolo della ‘Prefazione’ al loro Nuovissimo vocabolario illustrato della lingua italiana (Selezione dal Reader’s Digest, Milano 1997) il debito della nostra lingua con il grande fiorentino: “Tecnico di questa lingua [il dolce stil nuovo], fondata soprattutto sul ritegno e l’eliminazione di ogni volgarità, fu Dante. Egli afferma la dignità del volgare, nobilior, più nobile della lingua letteraria, perché questa è il risultato di uno sforzo di apprendimento non adatto a tutti, mentre quello lo apprendiamo dalla nutrice. […] Sensibile ai molteplici aspetti della lingua, Dante distingue gli impieghi del volgare nelle tre categorie dell’ illustre (canzone e tragedia), mezzano (ballata e commedia), umile (elegia). E indagando sulla ‘costruzione’ e sul ‘vocabolario’ del volgare illustre, la sua tesi appare come non lontana dalla ciceroniana, per la quale si tratta essenzialmente di eliminare scorie locali per accogliere un minimo di elementi non locali, per stendere il tutto secondo un minimo di artificio”.
Nella sua rude schiettezza, così liquida la faccenda Dossena: “Dante Alighieri sarà uno scrittore bilingue. Scriverà in latino due libri e altre cose; farà parlare in latino certi personaggi nel Purgatorio e nel Paradiso. Altre cose le scriverà in un neo-latino di Firenze; poi, dopo un lungo soggiorno nell’Italia settentrionale, arriverà a scrivere in un neo-latino a base regionale più vasta che verrà considerato ‘italiano’. Il ‘padre Dante’ sarà ‘padre dell’italiano’ nel senso che l’ ’italiano’ lo avrà inventato lui. Dante Alighieri si occuperà in sede teorica di questo problema, di ‘che cos’è la lingua italiana’, nel Convivio e nel De vulgari eloquentia“.
Il Convivio, scritto in volgare nei primi anni del 1300, apparentemente inteso a “divulgare, presso chi non legge il latino, certi temi fondamentali, religiosi, filosofici, politici”, ampiamente incompleto rispetto al piano originale (scrisse quattro trattati su quindici previsti), di difficile e ardua lettura, contiene affermazioni di inusitata violenza in Dante: A perpetuale infamia e depressione de li malvagi uomini d’Italia che commendano lo volgare altrui e lo loro proprio dispregiano, dico che la loro mossa viene da cinque abominevoli cagioni.
Negli stessi anni Dante mette mano al De vulgari eloquentia e questa volta scrive in latino un libro di critica letteraria per addetti ai lavori. Per Dossena, addirittura il “primo libro di storia della letteratura italiana”. In un ricchissimo ed esaustivo esame dei dialetti, più o meno neo-latini, parlati in Italia, Dante va eliminandone poco a poco la gran maggioranza, comprese le parlate toscane, non considerandole atte a un decente uso letterario. Contro alcuni addirittura si lancia in veementi squalificazioni, non lontane dall’ insulto, come possiamo leggere rispetto al dialetto dei romani che (usiamo la traduzione dal latino che ne fa Dossena): “ ‘non parlano neanche una lingua, ma uno squallido gergo; il loro è il più brutto di tutti i volgari italiani – il che non fa meraviglia, dato che anche a bruttura di abitudini e fogge esteriori i romani appaiono i più fetidi di tutti’. La lingua letteraria che ha in mente Dante Alighieri appartiene a ogni città italiana e non è propria di nessuna”.
Inventore di una lingua, Dante fu prima di tutto poeta, e lo fu sia da un punto di vista dei contenuti che delle forme. Sperimentatore inesausto, si cimentò nella Vita nuova con il dolce stil nuovo, nelle Rime con contenuti moraleggianti e didattici, nelle cosiddette ‘rime petrose’ inventa la sestina doppia o sestina rinterzata, nel Fiore appaiono i sonetti comici. Poi arriva la ‘terzina incatenata’ della Commedia, monumentum aere perennius del quale qui non parleremo: non ne siamo all’altezza e ben altri in questo anno a Lui dedicato la sviscereranno in ogni possibile modo. Possiamo solo, ancora una volta, condividere in toto il sentire di Giampaolo Dossena: “a questo punto della nostra storia [siamo nei primi anni del 1300] Dante Alighieri è già il più grande autore della letteratura italiana. Che negli anni successivi Dante Alighieri abbia saputo fare un salto qualitativo, abbia saputo affrontare un mutamento genetico, arrivando a scrivere l’Inferno, il Purgatorio e il Paradiso, è un fatto capitale nella storia della letteratura italiana e non solo della letteratura italiana; è uno di quei fatti per cui vale la pena di sapere l’italiano e varrà la pena di studiare l’italiano quando sarà una lingua morta”.