Ghino di Tacco, Radicofani, la Divina Commedia e il Decamerone
di Anna Maria Barbaglia
Dante cita Ghino di Tacco nel VI canto del Purgatorio nel girone dei “Morti per forza, o dei Morti di morte violenta”.
Siamo nell’antipurgatorio dove Dante è circondato dalle anime di questi morti che lo pregano di essere ricordati tra i vivi.
Tra questi, il Poeta riconosce Benincasa da Laterina morto per mano di Ghino.
“Qui v’eran l’aretitin che dalle braccia
fiere di Ghin di Tacco ebbe la morte”
Chi era Ghino di Tacco?
Apparteneva alla famiglia dei Cacciaconti degli Scialenghi, conosciuta per essere molto ostile al dominio della Chiesa.
Tale famiglia era proprietaria di numerose terre che si trovavano all’interno dei possedimenti dello Stato Pontificio e, per tali domini, doveva versare nelle casse della Chiesa una grossa rendita e che, intorno alla seconda metà del XIII secolo, per trovare il denaro necessario per tali versamenti, si diede al brigantaggio.
Il comportamento dei Cacciaconti fu tollerato al governo senese fino a quando assaltarono, mettendolo a ferro e fuoco, il castello di Torrita. Per anni furono costretti a vagare per la Val di Chiana rubando e saccheggiando ogni cosa si trovasse sul loro cammino in quanto inseguiti dalle milizie di Siena fino al 1285 quando il padre e lo zio di Ghino furono catturati, tradotti in Siena, condannati a morte dal citato Benincasa e successivamente giustiziati in Piazza del Campo ed era proprio in quell’occasione che Ghino e suo cugino incrociarono gli sguardi dei loro rispettivi padri per l’ultima volta prima di essere impiccati: quegli sguardi gridavano vendetta.
I due erano ancora minorenni e di loro il governo di Siena non si occupò, si diedero alla macchia e di loro non si parlò più fino a quando il loro nome non fu associato all’assassinio del Benincasa. Pare infatti che il giudice fu raggiunto dai due e decapitato nelle stanze vaticane e da qui la citazione di Dante.
Intanto, intorno al 1290, Ghino e il cugino, inseguiti dai Senesi, occuparono il castello di Radicofani che si trovava sotto la giurisdizione dello Stato Pontificio dove Siena non aveva nessun potere e che Ghino adoperò come se fosse suo. Trasformò il castello nel suo quartier generale da dove programmava le sue scorrerie.
Tale castello si trova dove allora era il confine tra il territorio di Siena e lo Stato Pontificio in una posizione dalla quale era possibile dominare e controllare tutta la Val d’Orcia ed i traffici che avvenivano sulla via Francigena percorsa dai pellegrini diretti a Gerusalemme, ma anche da ricchi mercanti e da personaggi di spicco della gerarchia ecclesiastica.
Da quella posizione Ghino e i suoi piombavano su chiunque passasse in quei paraggi come dei falchi, li derubavano e li sequestravano per rilasciarli solo dopo il pagamento di un lauto riscatto e, nel frattempo, venivano alloggiati nelle stanze del castello e mantenuti come si convien meglio agli ospiti con lauti banchetti.
E fu così che, verso la fine del 1200, il nostro Ghino, percorrendo proprio la via Francigena alla testa di circa 400 uomini, arrivò nel cuore di Roma e penetrò nel Campidoglio dopo averne sfondate le porte. All’interno di una delle stanze più importanti si trovava qualcuno di sua conoscenza che intanto era arrivato ai vertici della Curia di Roma, quel Benincasa che aveva condannato a morte il padre e lo zio.
Due dei suoi uomini gli si avventarono addosso, lo fecero inginocchiare e
“La tua testa per quella di mio padre, questa è la mia sentenza”
e con quella spada appartenuta al padre, lo decapitò.
Dopo questo episodio Ghino se ne ritornò a Radicofani e continuò le sue scorrerie in Val d’Orcia.
Alcuni storici sostengono che Ghino sia morto a Roma, altri invece ritennero che , a seguito del perdono papale (poi leggeremo come) e quello senese, Ghino di Tacco non dovette più nascondersi e darsi alla macchia ma, da “gentiluomo” qual era, si dedicò agli altri, tanto che, nel secondo ventennio del XIV, morì assassinato cercando di sedare una rissa tra fanti e contadini scoppiata ad Asinalonga (l’antico nome dell’odierna Sinalunga)), a soli due chilometri dal suo luogo di nascita.
Ghino era un personaggio che alimentò la fantasia di storici, studiosi e letterati e le sue gesta tornarono alla ribalta con Giovanni Boccaccio che gli dedicò una intera novella del Decamerone e più precisamente la II del X giorno parlando del trattamento che Ghino riservò all’Abate di Cluny e del risultato che Ghino ottenne grazie a questo trattamento.
Ghino di Tacco piglia l’abate di Cligni e medicalo del male dello stomaco, e poi il lascia; il quale, tornato in corte di Roma, lui riconcilia con Bonifazio papa, e fállo frière dello Spedale.
Lodata era giá stata la magnificenza del re Anfonso nel fiorentin cavaliere usata, quando il re, al quale molto era piaciuta, ad Elissa impose che seguitasse; la quale prestamente incominciò:
Dilicate donne, l’essere stato un re magnifico e l’avere la sua magnificenza usata verso colui che servito l’avea non si può dire che laudevole e gran cosa non sia: ma che direm noi se si racconterá, un cherico aver mirabil magnificenza usata verso persona che, se inimicato l’avesse, non ne sarebbe stato biasimato da persona? Certo non altro, se non che quella del re fosse vertú e quella del cherico miracolo, con ciò sia cosa che essi tutti avarissimi troppo piú che le femine sieno, e d’ogni liberalitá nemici a spada tratta; e quantunque ogni uomo naturalmente appetisca vendetta delle ricevute offese, i cherici, come si vede, quantunque la pazienza predichino e sommamente la remission dell’offese commendino, piú focosamente che gli altri uomini a quella discorrono. La qual cosa, cioè come un cherico magnifico fosse, nella mia seguente novella potrete conoscere aperto.
Ghino di Tacco, per la sua fierezza e per le sue ruberie uomo assai famoso, essendo di Siena cacciato e nemico de’ conti di Santafiore, ribellò Radicofani alla Chiesa di Roma, ed in quel dimorando, chiunque per le circostanti parti passava rubar faceva a’ suoi masnadieri. Ora, essendo Bonifazio papa ottavo in Roma, venne a corte l’abate di Cligni, il quale si crede essere un de’ piú ricchi prelati del mondo: e quivi guastatoglisi lo stomaco, fu da’ medici consigliato che egli andasse a’ bagni di Siena, e guerirebbe senza fallo; per la qual cosa, concedutogliele il papa, senza curar della fama di Ghino, con gran pompa d’arnesi e di some e di cavalli e di famiglia entrò in cammino. Ghino di Tacco, sentendo la sua venuta, tese le reti, e senza perderne un sol ragazzetto, l’abate con tutta la sua famiglia e le sue cose in uno stretto luogo racchiuse: e questo fatto, un de’ suoi il piú saccente, bene accompagnato, mandò all’abate, al quale da parte di lui assai amorevolmente gli disse che gli dovesse piacere d’andare a smontare con esso Ghino al castello. Il che l’abate udendo, tutto furioso rispose che egli non ne voleva far niente, sí come quegli che con Ghino niente aveva a fare, ma che egli andrebbe avanti e vorrebbe veder chi l’andar gli vietasse. Al quale l’ambasciadore umilmente parlando disse: — Messer, voi siete in parte venuto dove, dalla forza di Dio in fuori, di niente ci si teme per noi, e dove le scomunicazioni e gl’interdetti sono scomunicati tutti: e per ciò piacciavi per lo migliore di compiacere a Ghino di questo. — Era giá, mentre queste parole erano, tutto il luogo di masnadieri circondato; per che l’abate, co’ suoi preso veggendosi, disdegnoso forte, con l’ambasciadore prese la via verso il castello, e tutta la sua brigata e li suoi arnesi con lui. E smontato, come Ghino volle, tutto solo fu messo in una cameretta d’un palagio assai oscura e disagiata, ed ogni altro uomo secondo la sua qualitá per lo castello fu assai bene adagiato, ed i cavalli e tutto l’arnese messo in salvo senza alcuna cosa toccarne. E questo fatto, se n’andò Ghino all’abate e dissegli: — Messer, Ghino, di cui voi siete oste, vi manda pregando che vi piaccia di significargli dove voi andavate e per qual cagione. — L’abate che, come savio, aveva l’altierezza giú posta, gli significò dove andasse e perché. Ghino, udito questo, si partì, e pensossi di volerlo guerire senza bagno: e faccendo nella cameretta sempre ardere un gran fuoco e ben guardarla, non tornò a lui infino alla seguente mattina: ed allora in una tovagliuola bianchissima gli portò due fette di pane arrostito ed un gran bicchiere di vernaccia da Corniglia, di quella dell’abate medesimo; e si disse all’abate: — Messer, quando Ghino era piú giovane, egli studiò in medicine, e dice che apparò, niuna medicina al mal dello stomaco esser miglior che quella che egli vi fará; della quale queste cose che io vi reco sono il cominciamento, e per ciò prendetele e confortatevi. — L’abate, che maggior fame aveva che voglia di motteggiare, ancora che con isdegno il facesse, si mangiò il pane e bevve la vernaccia, e poi molte cose altiere disse e di molte domandò e molte ne consigliò, ed in ispezialtá chiese di poter veder Ghino. Ghino, udendo quelle, parte ne lasciò andar sí come vane e ad alcuna assai cortesemente rispose, affermando che, come Ghino piú tosto potesse, il visiterebbe; e questo detto, da lui si partì, né prima vi tornò che il seguente dì, con altrettanto pane arrostito e con altrettanta vernaccia: e cosí il tenne piú giorni, tanto che egli s’accorse, l’abate aver mangiate fave secche le quali egli studiosamente e di nascoso portate v’aveva e lasciate. Per la qual cosa egli il domandò da parte di Ghino come star gli pareva dello stomaco; al quale l’abate rispose: — A me parrebbe star bene, se io fossi fuori delle sue mani; ed appresso questo, niuno altro talento ho maggiore che di mangiare, sì ben m’hanno le sue medicine guerito. — Ghino adunque, avendogli de’ suoi arnesi medesimi ed alla sua famiglia fatta acconciare una bella camera, e fatto apparecchiare un gran convito, al quale con molti uomini del castello fu tutta la famiglia dell’abate, a lui se n’andò la mattina seguente e dissegli: — Messer, poi che voi ben vi sentite, tempo è d’uscire d’infermeria — e per la man presolo, nella camera apparecchiatagli nel menò, ed in quella co’ suoi medesimi lasciatolo, a far che il convito fosse magnifico attese. L’abate co’ suoi alquanto si ricreò, e qual fosse la sua vita stata narrò loro, dove essi in contrario tutti dissero sé essere stati maravigliosamente onorati da Ghino; ma l’ora del mangiar venuta, l’abate e tutti gli altri ordinatamente e di buone vivande e di buoni vini serviti furono, senza lasciarsi Ghino ancora all’abate conoscere. Ma poi che l’abate alquanti dì in questa maniera fu dimorato, avendo Ghino in una sala tutti gli suoi arnesi fatti venire, ed in una corte che di sotto a quella era tutti i suoi cavalli infino al piú misero ronzino, all’abate se n’andò e domandollo come star gli pareva e se forte si credeva essere da cavalcare; a cui l’abate rispose che forte era egli assai e dello stomaco ben guerito, e che starebbe bene qualora fosse fuori delle mani di Ghino. Menò allora Ghino l’abate nella sala dove erano i suoi arnesi e la sua famiglia tutta, e fattolo ad una finestra accostare donde egli poteva tutti i suoi cavalli vedere, disse: — Messer l’abate, voi dovete sapere che l’esser gentile uomo e cacciato di casa sua e povero, ed avere molti e possenti nemici hanno, per potere la sua vita difendere e la sua nobiltá, e non malvagitá d’animo, condotto Ghino di Tacco, il quale io sono, ad essere rubatore delle strade e nemico della corte di Roma. Ma per ciò che voi mi parete valente signore, avendovi io dello stomaco guerito come io ho, non intendo di trattarvi come uno altro farei, a cui, quando nelle mie mani fosse come voi siete, quella parte delle sue cose mi farei che mi paresse: ma io intendo che voi a me, il mio bisogno considerato, quella parte delle vostre cose facciate che voi medesimo volete. Elle sono interamente qui dinanzi da voi tutte, ed i vostri cavalli potete voi da cotesta finestra nella corte vedere; e per ciò e la parte ed il tutto, come vi piace, prendete, e da questa ora innanzi sia e l’andare e lo stare nel piacer vostro. — Maravigliossi l’abate che in un rubator di strada fosser parole sí libere, e piacendogli molto, subitamente la sua ira e lo sdegno caduti, anzi in benivolenza mutatisi, col cuore amico di Ghino divenuto, il corse ad abbracciar dicendo: — Io giuro a Dio che, per dover guadagnar l’amistá d’uno uomo sí fatto come omai io giudico che tu sii, io sofferrei di ricevere troppo maggiore ingiuria che quella che infino a qui paruta m’è che tu m’abbi fatta. Maladetta sia la fortuna, la quale a sí dannevole mestier ti costrigne! — Ed appresso questo, fatto delle sue molte cose pochissime ed opportune prendere, e de’ cavalli similmente, e l’altre lasciategli tutte, a Roma se ne tornò. Aveva il papa saputa la presura dell’abate: e come che molto gravata gli fosse, veggendolo il domandò come i bagni fatto gli avesser prò; al quale l’abate sorridendo rispose: — Santo padre, io trovai piú vicino che i bagni un valente medico, il quale ottimamente guerito m’ha. — E contògli il modo, di che il papa rise; al quale l’abate, seguitando il suo parlare, da magnifico animo mosso, domandò una grazia. Il papa, credendo lui dover domandare altro, liberamente offerse di far ciò che domandasse. Allora l’abate disse: — Santo padre, quello che io intendo domandarvi è che voi rendiate la grazia vostra a Ghino di Tacco mio medico, per ciò che tra gli altri uomini valorosi e da molto che io accontai mai, egli è per certo un de’ piú, e quel male il quale egli fa, io il reputo molto maggior peccato della fortuna che suo; la qual se voi con alcuna cosa dandogli donde egli possa secondo lo stato suo vivere, mutate, io non dubito punto che in poco di tempo non ne paia a voi quello che a me ne pare. — Il papa, udendo questo, sí come colui che di grande animo fu e vago de’ valenti uomini, disse di farlo volentieri se da tanto fosse come diceva, e che egli il facesse sicuramente venire. Venne adunque Ghino, fidato, come all’abate piacque, a corte: né guari appresso del papa fu, che egli il reputò valoroso, e riconciliatolsi, gli donò una gran prioria di quelle dello Spedale, di quello avendol fatto far cavaliere; la quale egli, amico e servidore di santa Chiesa e dell’abate di Cligni, tenne mentre visse.
Fortezza di Radicofani