La Lonza in Dante... ”morte comune e delle corti vizio”
di Giovanni Delfino ed Emilio Bozzano
Non dobbiamo azzardare interpretazioni arzigogolate o fantasiose sulle tre fiere. Nessun dubbio dobbiamo avere sul Leone (superbia) e sulla Lupa (cupidigia-avarizia). Per quanto riguarda la Lonza ascoltiamo piuttosto Dante, che fa parlare Ciacco della sua Firenze nel VI canto dell’Inferno.
E quando Dante gli chiede, “la cagione per che l’ha tanta discordia assalita” (Inf VI, 62-63)
Ciacco risponde senza indugio :
“superbia, invidia e avarizia sono
le tre faville c’hanno i cuori accesi”(Ecco dunque le tre fiere)
(Inf VI, 74 -75)
Che cosa quindi rappresenti la Lonza, non dobbiamo dubitare, è certamente l’invidia perché:
«La tua città, ch’è piena
d’invidia sì che già trabocca il sacco”
(Inf VI, 49-50)
E’ perché il Veltro farà morir con doglia la lupa dopo averla cacciata per ogni villa finché l’avrà rimessa nell’inferno “là onde invidia prima dipartilla “ ( Inf I, 111) alludendo ovviamente all’invidia di Lucifero e degli angeli ribelli, da cui derivarono la cupidigia e tutti i mali. Dante stesso ha patito sulla sua pelle e nella sua vita le calunnie e le mal dicenze che essa genera, così come l’invidia fu causa dell’esilio di Romeo da Villanova, il personaggio che più somiglia al poeta esule.
“ E poi il mosser le parole biece” ( cioè dell’Invidia…)
a dimandar ragione a questo giusto “( Par VI, 136-137)
di cui fu l’ovra grande e bella mal gradita” (Par VI, 129)
Personaggio questo che tanto assomiglia al nostro poeta in esilio; anche Dante proverà, come Romeo, il sapore amaro del pane altrui :
“Tu proverai sì come sa di sale
lo pane altrui, e come è duro calle
lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale. “
(Par XVII, 58-60)
L’invidia sarà pure ritenuta causa della morte suicida di Pier della Vigna, segretario plenipotenziario dell’Imperatore Federico II e definita :
“La meretrice che mai da l’ospizio
di Cesare non torse li occhi putti,
morte comune e de le corti vizio”
(Inf XIII, 64-66)
Ma se vogliamo procedere come suggerisce Dante e cioè “ provando e riprovando” (Par III, 3) vediamo anche come il Sommo esalti le virtù contrarie ai vizi nel Purgatorio, e proponga la “ concordia ordinum” nel Paradiso, ove basti pensare alla beatitudine di Piccarda Donati, dove proprio non c’è invidia nei confronti di chi è più in alto perché quando Dante le chiede :
“Ma dimmi: voi che siete qui felici,
disiderate voi più alto loco
per più vedere e per più farvi amici?».
(Par III, 64 -66)
Lei sorrise un poco( di…. compassione … !!) e dette quella splendida risposta :
“Frate, la nostra volontà quieta
virtù di carità, che fa volerne
sol quel ch’avemo, e d’altro non ci asseta”
(Par III, 70-72)
“ E ‘n la sua volontade è nostra pace:” (Par III, 85)
“Chiaro mi fu allor come ogne dove
in cielo è paradiso”
(Par III, 88-89)
Esempio di virtù contraria alla superbia e cioè ( “lo gran disio de l’eccellenza ove mio core intese”
-Pur XI, 86-87)
E’ senza dubbio la benevolenza che incontriamo nel Purgatorio prima, e nel Paradiso poi, regno della “concordia ordinum”. Esemplare l’incontro con Oderisi da Gubbio, quando l’anima di lui che purga il suo peccato di superbia non accoglie l’elogio di Dante di essere :
“l’onor d’Agobbio e l’onor di quell’arte
ch’alluminar chiamata è in Parisi?»
(Pur XI, 80-81)
Riconoscendo anzi al suo rivale, Franco Bolognese, il primato nell’ arte della miniatura, procedendo poi con quei famosi giudizi su Cimabue e Giotto e su Guido Guinizelli e Guido Cavalcanti.
“Credette Cimabue ne la pittura
tener lo campo, e ora ha Giotto il grido,
sì che la fama di colui è scura
così ha tolto l’uno a l’altro Guido
la gloria de la lingua; e forse è nato
chi l’uno e l’altro caccerà del nido.”
(Pur XI, 94-99)
e dando poi quel famoso giudizio sulla fama e sui nostri giudizi valoriali terreni
“Non è il mondan romore altro ch’un fiato
di vento, ch’or vien quinci e or va quindi,
e muta nome perché muta lato.”
(Pur XI, 100-102)
e questo detto da Dante che al giudizio dei posteri ci tiene, come dimostra quando dice:
“temo di perder viver tra coloro
che questo tempo chiameranno antico”
(Par XVII, 119-120)
Che cosa rappresenti nel Paradiso la concordia ordinum è mirabilmente evidenziato nei canti XI e XII, laddove San Bonaventura, francescano, tesse l’elogio di San Domenico fondatore dell’Ordine domenicano, mentre San Tommaso teologo domenicano, tesse l’elogio di San Francesco, fondatore dell’Ordine francescano. Una reciproca considerazione e stima che le cronache di quei tempi non ci raccontano, ancor più evidenziata dalle invettive di biasimo, che entrambi lanciano contro i propri confratelli degeneri e inclini a divisioni e discordie. Il Paradiso di Dante non può che essere la Jerusalem celeste, dove si realizzano le utopie filosofiche e profetiche del suo tempo ( Gioacchino da Fiore, Sigeri di Brabante, ecc..) obbedendo ad un superiore spirito di conciliazione al cospetto della Verità Eterna.