L'Italia e Arrigo VII (Un sogno infranto)
L’ITALIA E ARRIGO VII
(Un sogno infranto)
di Alfonso Licata e Fernando Acitelli
Tino di Camaino, Arrigo VII di Lussemburgo, 1313,
Fuochi d’artificio, effetti pirotecnici, Comuni in trambusto, questo lo scenario d’Italia al volgere del XIV secolo. Le cause di tali scoppiettii si conoscevano: fazioni in guerra, diversità di vedute nei governi cittadini, intrusioni papali, mancanza di personalità forti come erano state il Barbarossa prima e Federico II poi. Richiesta d’aiuto da parte dei Comuni.
Riportiamo di seguito il passo finale della lettera (scritta intorno al 1311) in cui Dante si rivolge all’imperatore Arrigo VII di Lussemburgo durante la sua discesa in Italia e lo esorta a rompere gli indugi che sino a quel momento lo hanno trattenuto, stroncando finalmente la resistenza di Firenze, il Comune a capo della resistenza guelfa contro la sua autorità che viene paragonato da Dante a una “pestifera idra” dalle molte teste. L’Epistola, in cui Dante vibra di sdegno e si scaglia contro i suoi avversari con furore quasi biblico, nell’originale latino è un bell’esempio di retorica medievale e testimonia la grande speranza nutrita da Dante nel tentativo di Arrigo di ristabilire l’autorità imperiale sul nord Italia, tentativo poi andato fallito.
Le speranze di Dante
Settima Epistola.
Sanctissimo gloriosissimo atque felicissimo triumphatori et domino singulari domino Henrico divina providentia Romanorum Regi et semper Augusto, devotissimi sui Dantes Alagherii Florentinus et exul inmeritus ac universaliter omnes Tusci qui pacem desiderant, terre osculum ante pedes. (…) Tu Mediolani tam vernando quam hiemando moraris et hydram pestiferam per capitum amputationem reris extinguere? Quod si magnalia gloriosi Alcide recensuisses, te ut illum falli cognosceres, cui pestilens animal, capite repullulante multiplici, per damnum crescebat, donec instanter magnanimus vite principium impetivit. Non etenim ad arbores extirpandas valet ipsa ramorum incisio quin iterum multiplicius virulenter ramificent, quousque radices incolumes fuerint ut prebeant alimentum. Quid, preses unice mundi, peregisse preconicis cum cervicem Cremone deflexeris contumacis? nonne tunc vel Brixie vel Papie rabies inopina turgescet? Ymo, que cum etiam flagellata resederit, mox alia Vercellis vel Pergami vel alibi returgebit, donec huius scatescentie causa radicalis tollatur, et radice tanti erroris avulsa, cum trunco rami pungitivi arescant.An ignoras, excellentissime principum, nec de specula summe celsitudinis deprehendis ubi vulpecula fetoris istius, venantium secura, recumbat? Quippe nec Pado precipiti, nec Tiberi tuo criminosa potatur, verum Sarni fluenta torrentis adhuc rictus eius inficiunt, et Florentia, forte nescis?, dira hec pernicies nuncupatur. (…)
Traduzione:
Tu resti a Milano passandovi dopo l’inverno la primavera, e credi di uccidere l’idra pestifera con l’amputarle le teste? Che se ricordassi le grandi imprese del glorioso Alcide, capiresti di sbagliare come lui, contro il quale la bestia pestifera, rinascendo le molte teste, per i colpi cresceva, finché quel magnanimo impetuosamente non attaccò la radice stessa della vita. Per estirpare alberi, infatti, non vale il taglio dei rami, che anzi di nuovo ramificano vigorosamente più numerosi, fin quando siano rimaste indenni le radici che forniscano nutrimento. Che cosa, o unico Signore del mondo, credi di aver compiuto quando avrai piegato il collo di Cremona ribelle? Forse che allora non si gonfierà inaspettata la rabbia o di Brescia o di Pavia? Anzi, quando questa rabbia anche flagellata sarà abbattuta, subito l’altra di Vercelli o di Bergamo o altrove scoppierà di nuovo, finché non si elimini alla radice la causa di questo tumore purulento e, strappata la radice di così grave errore, i rami pungenti insieme col tronco inaridiscano. O forse ignori, eccellentissimo fra i principi, e non scorgi dalla specola della somma altezza dove si rintani la piccola volpe di codesto fetore, noncurante dei cacciatori? Certo la scellerata non si abbevera alle acque precipiti del Po, né al tuo Tevere, ma le sue fauci infettano ancora la corrente dell’Arno impetuoso, e si chiama Firenze, forse non sai?, questo crudele flagello. Questa è la vipera avventatasi contro le viscere della madre; questa è la pecora malata che infetta col suo contagio il gregge del suo pastore; questa la scellerata ed empia Mirra che arde per gli amplessi del padre Cinira; questa è quella Amata furiosa che, rifiutate le nozze fatali, non ebbe paura di prendersi per genero colui che i fati vietavano, anzi lo eccitò furibonda alla guerra e infine, pagando il fio delle audacie malvagie, si impiccò. Invero cerca di dilaniare la madre sua con viperina ferocia quando aguzza le corna della ribellione contro Roma, che la fece a immagine e somiglianza sua. Invero, evaporando l’umore corrotto esala fumi pestilenziali e i greggi vicini, ignari, ne sono contagiati, quando seducendoli con false blandizie e menzogne si associa i confinanti e associatili li dissenna. Invero arde per gli amplessi paterni quando con malvagia procacità tenta di far violenza al consenso nei tuoi riguardi del sommo pontefice, che padre è dei padri. Invero resiste al comandamento di Dio col venerare l’idolo della propria volontà, quando disprezzando il re legittimo non arrossisce la folle di patteggiare con un re non suo diritti non suoi per aver facoltà di far male. Ma badi alla corda con cui si lega, la forsennata donna. Ché spesso, uno si consegna al reprobo senno per fare, così consegnato, le cose che non dovrebbe fare; e sebbene siano azioni ingiuste, giusti tuttavia i castighi sono riconosciuti. Su dunque, rompi gli indugi, nuova prole di Iesse trai la tua fede dagli occhi del Signore Dio degli eserciti, al cui cospetto tu operi e abbatti questo Golia con la fionda della tua saggezza e con il sasso della tua forza; poiché con la sua caduta la notte e l’ombra della paura coprirà il campo dei Filistei; fuggiranno i Filistei e sarà liberato Israele. Allora la nostra eredità, che, a noi tolta, incessantemente piangiamo, ci sarà restituita per intero; e come ora, memori della sacrosanta Gerusalemme, esuli gemiamo in Babilonia, così allora cittadini e respirando nella pace ricorderemo nella gioia le miserie della confusione. |
[1] L’Idra di Lerna era un mostro dotato di molte teste, che invano Ercole (l’Alcide) tentò di uccidere tagliandole una ad una, finché non appiccò il fuoco all’unico collo.
[2] Le città lombarde nominate da Dante si erano ribellate all’autorità di Arrigo, il quale è esortato dall’autore ad attaccare Firenze quale epicentro della ribellione.
[3] Dalla vedetta, dalla rocca.
[4] L’immagine è evangelica.
[5] Mirra è l’eroina tragica che si era innamorata del padre Ciniro, mentre la regina Amata, moglie del re Latino, si era opposta alle nozze della figlia Lavinia con Enea (Eneide, VII).
[6] Roberto d’Angiò, il re di Napoli con cui Firenze era alleata contro Arrigo.
[7] Il paragone è ancora con Amata, che si impiccò dopo aver invano scatenato la guerra contro Enea.
[8] David, figlio di Iesse e destinato a diventare re d’Israele.
Occasione opportuna la discesa di Arrigo VII (o Enrico VII) in Italia per Dante. In questo modo egli si chiarisce (e chiarisce al mondo intorno) la situazione italiana, naturalmente dal suo osservatorio privilegiato. Con una lettera ponderata ma dal tono fermo e deciso, il Padre Dante si rivolge all’imperatore e lo esorta a non indugiare nella città di Milano nel tentativo di reprimere la ribellione di alcuni Comuni lombardi come ad esempio Cremona, Brescia e Pavia ma a raggiungere immediatamente la Toscana per espugnare Firenze. Secondo Dante era proprio Firenze il tumor, luogo ove la ribellione guelfa contro il sovrano stava dilagando. Il Poeta usa una sintesi molto efficace, definendo la città addirittura come una “idra pestifera” evidentemente riferendosi al mostro mitologico. Il furore di Dante colpisce proprio la sua città, Firenze, definita anche una “piccola volpe” che si abbevera all’Arno; e subito dopo come una “pecora malata” che diffonde il contagio all’intero gregge. Da questa epistola, ancora una volta, Dante individua nel partito guelfo la causa dei mali italiani. Questo esporsi per l’imperatore fu per il Poeta motivo di esclusione dall’amnistia del 1311 concessa dal Comune di Firenze ai fuoriusciti guelfi.
È il 6 gennaio dell’anno 1311 il giorno dell’arrivo a Milano di Arrigo VII. C’è da chiedersi in che modo Dante avesse saputo che l’Imperatore era giunto nella penisola. Doveva egli avere delle notizie in anticipo? Chi, materialmente, comunicò al Poeta le tappe di avvicinamento all’Italia? Di quali canali poteva disporre Dante, già tutto esposto al suo infinito viaggio nei tre regni di purificazione? Fu il successivo 28 gennaio che alla corte di Arrigo VII, nel vecchio palazzo del Comune di Milano, si presentarono dodici plenipotenziari genovesi i quali dichiararono di riconoscerlo come legittimo Signore della città di Genova, del Comune, del Popolo e di tutto il territorio genovese prestando il giuramento di fedeltà: da quel momento in poi tutti i genovesi, singolarmente e collettivamente, promettevano di essere fedeli, obbedienti al re e al Sacro Romano Impero. La sottomissione di Genova ad Arrigo VII non comportò, a differenza della Lombardia, cambiamenti nelle strutture di governo e il Podestà, l’Abate e i Governatori mantennero le loro attribuzioni. Genova doveva comunque contribuire al compenso economico del Vicario Generale con un importo di diecimila fiorini ogni tre mesi anche se in tale somma erano compresi i contributi delle altre città del territorio (Savona, Noli, Albenga e Ventimiglia).
L’ingresso di Arrigo VII in Genova ebbe luogo il 21 ottobre 1311 e quel giorno fu interamente dedicato ai festeggiamenti.
Il successivo 22 novembre, precisamente in piazza San Lorenzo, alla presenza del popolo genovese lì adunato, si celebrò l’atto solenne con il quale Arrigo VII assumeva la diretta Signoria della città di Genova e del territorio per un periodo ventennale.
Quando Arrigo VII giunse a Roma e ne varcò le mura per essere incoronato imperatore nel mese di maggio 1312, incontrò molte resistenze e non riuscì ad entrare in Vaticano a causa della presenza delle truppe angioine controllate dalla famiglia Colonna. Egli, pertanto, fu costretto a svolgere la cerimonia della propria incoronazione il 29 giugno presso il Laterano.
La signoria di Arrigo VII ebbe però breve durata: mentre con le sue truppe cingeva d’assedio la città guelfa di Siena, si ammalò di malaria e, neanche alla soglia dei quaranta anni, morì; era il 24 di agosto 1313 e con lui si persero le speranze per un effettivo potere imperiale in Italia.
( tratto dal libro di Alfonso Licata e Fernando Acitelli “Lanzarotto Malocello,dall’Italia alle Canarie”, Volume secondo, anno 2018, edito dalla Lega Navale Italiana)
ITALIA y ENRIQUE VII
(Un sueno roto)
por Alfonso Licata e Fernando Acitelli
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uegos artificiales, efectos pirotécnicos, Comunas en el bullicio; este es el escenario de Italia a finales del siglo XIV. Las causas de estos estallidos eran conocidas: bandos en la guerra, diversidad de puntos de vista en los gobiernos de las ciudades, intrusiones papales, falta de personalidades fuertes como lo fueron primero Barbarroja y después Federico II. Llamada de auxilio por parte de las Comunas.
A continuación, recordamos el párrafo final de la nota (escrita en torno a 1311) en la que Dante se dirige al emperador Enrique VII de Luxemburgo (Enrico VII) durante su descenso a Italia y le exhorta a romper las dilaciones que, hasta entonces, lo han retenido, acabando finalmente con la resistencia de Florencia, la Comuna a cargo de la resistencia güelfa contra su autoridad que es comparada por Dante con una “Hidra pestífera” de muchas cabezas. La Epístola, en la que Dante vibra con indignación y se lanza contra sus adversarios con una furia casi bíblica en el latín original, es un buen ejemplo de retórica medieval y atestigua la gran esperanza alimentada por Dante en el intento de Enrique de restablecer la autoridad imperial en el norte de Italia, un intento a la postre fallido.
La esperanza de Dante
Séptima epístola.
Sanctissimo gloriosissimo atque felicissimo triumphatori et domino singulari domino Henrico divina providentia Romanorum Regi et semper Augusto, devotissimi sui Dantes Alagherii Florentinus et exul inmeritus ac universaliter omnes Tusci qui pacem desiderant, terre osculum ante pedes. (…) Tu Mediolani tam vernando quam hiemando moraris et hydram pestiferam per capitum amputationem reris extinguere? Quod si magnalia gloriosi Alcide recensuisses, te ut illum falli cognosceres, cui pestilens animal, capite repullulante multiplici, per damnum crescebat, donec instanter magnanimus vite principium impetivit. Non etenim ad arbores extirpandas valet ipsa ramorum incisio quin iterum multiplicius virulenter ramificent, quousque radices incolumes fuerint ut prebeant alimentum. Quid, preses unice mundi, peregisse preconicis cum cervicem Cremone deflexeris contumacis? nonne tunc vel Brixie vel Papie rabies inopina turgescet? Ymo, que cum etiam flagellata resederit, mox alia Vercellis vel Pergami vel alibi returgebit, donec huius scatescentie causa radicalis tollatur, et radice tanti erroris avulsa, cum trunco rami pungitivi arescant.An ignoras, excellentissime principum, nec de specula summe celsitudinis deprehendis ubi vulpecula fetoris istius, venantium secura, recumbat? Quippe nec Pado precipiti, nec Tiberi tuo criminosa potatur, verum Sarni fluenta torrentis adhuc rictus eius inficiunt, et Florentia, forte nescis?, dira hec pernicies nuncupatur. (…)
Traducción:
Te quedas en Milán, pasando la primavera después del invierno, y ¿crees matar a la Hidra amputándole las cabezas[1]? Si recordases los grandes logros del glorioso Alcides, entenderías cometer errores, como él, contra la bestia pestilente que, renacida de las muchas cabezas, creció con cada golpe hasta que ese magnánimo impetuosamente atacó la raíz misma de la vida. Para acabar con los árboles, en efecto, no vale la pena cortar las ramas, que de nuevo se ramifican vigorosamente más numerosas, permaneciendo ilesas las raíces que proporcionan alimento. ¿Qué creerás lograr, oh señor único del mundo, cuando hayas doblado el rebelde cuello de Cremona?, ¿no crecerá quizás inesperadamente la rabia de Brescia o de Pavía[2]? De hecho, cuando esta rabia también azotada sea derribada, inmediatamente la de Vercelli o Bergamo u otro lugar estallará de nuevo, hasta que no se elimine de raíz la causa de este tumor purulento y, arrancada la raíz de un error tan grave, se sequen las ramas punzantes y el tronco. ¿O quizás ignoras, excelentísimo entre los principios, y no te das cuenta del espéculo de la altura más alta[3] donde se esconde el pequeño zorro de este hedor, indiferente a los cazadores? ¿Tal vez no sabes que, por supuesto, el impío no bebe de las aguas precipitadas del Po, ni del Tíber, pero sus mandíbulas aún infectan la corriente del impetuoso Arno, y que se llama Florencia? Este flagelo cruel. Esta es la víbora que se ha abalanzado contra las entrañas de la madre; esta es la oveja enferma que infecta con su contagio al rebaño de su pastor [4]; esta es la malvada e impía Mirra [5] que arde por los abrazos de su padre Cinira; esta es el Amata furiosa que, rechazando las bodas fatales, no temía tomar para sí a quien el destino le prohibía, en realidad, excitándole furiosamente a la guerra y, finalmente, pagando la malvada audacia, se ahorcó. Realmente, trata de destrozar a su madre con viperina ferocidad cuando agudiza los cuernos de la rebelión contra Roma, hecha a su imagen y semejanza. En realidad, evaporándose el humor corrupto, exhala humos pestilentes y los rebaños cercanos, desprevenidos, se infectan, cuando al seducirlos con falsas alabanzas y mentiras, se asocia a los vecinos y estos enloquecen. Arde por sus abrazos paternos cuando, con maldad, la insolencia trata de violentar el consentimiento en tus saludos del Sumo Pontífice, padre de los padres. Resiste realmente al mandamiento de Dios al venerar al ídolo de la propia voluntad cuando, al despreciar al rey legítimo, el loco no se ruboriza de pactar con un rey, ni sus derechos son los suyos por tener el derecho a herir[6]. Pero, cuidado con la cuerda con la que se enlaza la mujer enloquecida[7]. Porque, a menudo, uno se entrega al juicio reprobado de hacer, así entregado, las cosas que no debe hacer; y, aunque son acciones injustas, solo se reconocen los castigos. Por lo tanto, actúa, nueva descendencia de Isaí [8], aparta tu fe de los ojos del Señor Dios de los ejércitos, ante cuya presencia trabajas y derriba a Goliath con la honda de tu sabiduría y con la piedra de tu fortaleza; porque con su caída, la noche y la sombra del miedo cubrirán el campo de los filisteos; los filisteos huirán e Israel será liberado. Entonces nuestro legado, el cual nos quitaron y al cual lloramos sin cesar, nos será devuelto en su totalidad; y como ahora, en la memoria de la sacrosanta Jerusalén, los exiliados gimen en Babilonia, así, entonces, ciudadanos, respirando en paz, recordaremos con alegría las miserias de la confusión.
Para Dante, fue la ocasión oportuna para el descenso de Enrique VII (o Enrico VII) a Italia. De esta manera, se aclara (y aclara al mundo que lo rodea) la situación italiana, naturalmente desde su puesto de observación privilegiado. Con una carta reflexiva, pero con un tono firme y decisivo, el padre Dante se dirige al emperador y le pide que no se demore en la ciudad de Milán para intentar reprimir la rebelión de algunas Comunas lombardas como Cremona, Brescia y Pavía, sino que llegue a inmediatamente a la Toscana para conquistar Florencia. Según Dante, Florencia era el tumor, un lugar donde se extendía la rebelión güelfa contra el soberano. El Poeta usa una síntesis muy efectiva, definiendo la ciudad incluso como una “Hidra pestífera”, evidentemente refiriéndose al monstruo mitológico. La furia de Dante golpea a su propia ciudad, Florencia, también llamada “pequeña zorra” que bebe del Arno; e inmediatamente después como una “oveja enferma” que transmite la infección a todo el rebaño. En esta epístola, una vez más, Dante identifica la causa de los males italianos en el partido güelfo. Esta exposición al emperador fue para el Poeta una razón de exclusión de la amnistía de 1311, otorgada por la ciudad de Florencia a los güelfos que escaparon.
Es el 6 de enero del 1311 cuando Enrique VII llega a Milán. Uno se pregunta de qué manera supo Dante que el emperador había llegado a la península. ¿Debería tener noticias por adelantado? ¿Quién, físicamente, comunicó al Poeta los pasos de acercamiento a Italia? ¿Qué canales podría tener Dante a su disposición, ya expuesto a su viaje infinito a través de los tres reinos de purificación? Fue el siguiente 28 de enero cuando en la corte de Enrique VII, en el antiguo palacio de la Comuna de Milán, se presentaron doce plenipotenciarios genoveses que declararon reconocerlo como el legítimo Señor de la ciudad de Génova, de la Comuna, del Pueblo y de todo el territorio genovés, prestando juramento de lealtad: a partir de ese momento, todos los genoveses, individual y colectivamente, prometieron ser fieles, obedientes al rey y al Sacro Imperio Romano. La sumisión de Génova a Enrique VII no implicó, a diferencia de Lombardía, cambios en las estructuras de gobierno, y el Podestá, el Abad y los Gobernadores mantuvieron sus atribuciones. Génova, sin embargo, tuvo que contribuir a la compensación económica del Vicario general con una cantidad de diez mil florines cada tres meses, incluso si esta suma incluyera contribuciones de otras ciudades en el territorio (Savona, Noli, Albenga y Ventimiglia).
La entrada de Enrique VII en Génova se llevó a cabo el 21 de octubre de 1311 y, ese día, se dedicó por completo a festejar.
El 22 de noviembre siguiente, precisamente en la Piazza San Lorenzo, en presencia de los genoveses reunidos allí, se celebró el acto solemne con el que Enrique VII asumió el señorío directo de la ciudad de Génova y del territorio por un período de veinte años. Cuando Enrique VII llegó a Roma y cruzó las murallas para ser coronado emperador en el mes de mayo de 1312, encontró muchas resistencias y no pudo entrar el Vaticano debido a la presencia de las tropas angevinas controladas por la familia Colonna. Por lo tanto, se vio obligado a realizar la ceremonia de su propia coronación el 29 de junio al Letrán.
El dominio de Enrique VII, sin embargo, duró poco: mientras asediaba con sus tropas la ciudad güelfa de Siena, enfermó de malaria y falleció con cuarenta años; era 24 de agosto de 1313, y con su marcha se perdieron las esperanzas de un poder imperial efectivo en Italia.
( tratto dal libro di Alfonso Licata e Fernando Acitelli “Lanzarotto Malocello,dall’Italia alle Canarie”, Volume secondo, anno 2018, edito dalla Lega Navale Italiana)
[1] La Hidra de Lerna era un monstruo con muchas cabezas que, en vano, intentó matar Hércules (Alcides), cortándolas una por una, hasta que puso el fuego en el único cuello que tenían.
[2] Las ciudades lombardas nombradas por Dante se habían rebelado contra la autoridad de Enrique, a las cuales el autor insta a atacar Florencia como el epicentro de la rebelión.
[3] Desde la vigía, desde la fortaleza.
[4] La imagen es evangélica.
[5] Mirra es la heroína trágica que se enamoró de su padre Ciniro, mientras que la reina Amata, esposa del rey latino, se opuso al casamiento de su hija Lavinia con Enea (Eneida, VII).
[6] Roberto de Anjou, el rey de Nápoles con quien Florencia se alió contra Enrique.
[7] La analogía sigue siendo con Amata, quien se ahorcó después de haber desatado la guerra contra Eneas.
[8] David, hijo de Isaí y destinado a ser rey de Israel.